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  • Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

Come facciamo a rispondere alla domanda “A cosa stai pensando?”

Alcune persone ragionano per immagini, altri portano avanti incessanti monologhi interiori: per ognuno la risposta è diversa. Ma fino a che punto ci è dato conoscere e descrivere i nostri pensieri?


di Francesca Bianco

In un recente articolo, lo storico Joshua Rothman, partendo dalla classica domanda “A cosa stai pensando?”, che vedeva spesso rivolgere la madre al padre quando era piccolo, approfondisce la varietà di stili di pensiero che esistono, e le diverse esperienze interiori che comportano. Osserva, per esempio, come alcune persone siano abituate a ragionare per immagini, altri siano in grado lavorare mentalmente su complesse rappresentazioni spaziali, e altri ancora portino avanti i propri pensieri all’interno di monologhi interiori.


Riporta alcuni concetti del libro “Visual Thinking: The Hidden Gifts of People Who Think in Pictures, Patterns, and Abstractions”, nel quale l’autrice Temple Grandin descrive la capacità di riflettere sui propri progetti di costruzione di strutture agricole, rappresentandosi mentalmente gli spazi e affermando di poter attingere alle proprie memorie infantili come fossero dettagliate immagini tridimensionali in movimento. Per ragionare, infatti, afferma di essere portata a concettualizzare le idee, non a parole, ma tramite analogie visive. Grandin, attivista per i diritti delle persone autistiche, sottolinea come sia stata proprio questa sua capacità di ragionare per immagini a renderla così efficace nel proprio lavoro di progettista.

Nel primo Novecento, riprendendo il concetto di “flusso di coscienza” proposto da William James nel 1890, alcuni autori hanno provato al contrario a tradurre in parole lo scorrere dei pensieri dei personaggi dei loro romanzi, per esempio in opere come “La signora Dalloway” di Virginia Woolf, l’”Ulisse” di James Joyce e “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust.


Nel suo libro, Grandin parla proprio del fatto che esistono persone più propense a pensare per immagini ed altre più abituate a sviluppare i propri pensieri tramite monologhi interiori, e suggerisce la presenza di un continuum dove ad un estremo troviamo quelli che lei definisce “object visualizers”, che ragionano modellando immagini mentali quasi fotografiche, e all’altro si collocano i cosiddetti “verbal thinkers”, che elaborano i pensieri all’interno di conversazioni interiori. Tra questi due poli, in una posizione intermedia, si troverebbero inoltre gli “spatial visualizers”, in grado di combinare il linguaggio alle rappresentazioni visive e di pensare in termini di pattern spaziali e astrazioni.


Queste osservazioni, che Grandin riporta ancorandosi a concetti propri delle neuroscienze e della psicologia cognitiva, sono sostenute da un’ampia letteratura. Maria Kozhevnikov, neuroscienziata cognitiva che ha approfondito in particolare le differenze individuali nell’elaborazione delle informazioni, spiega che, pur ragionando entrambi in modo visivo, se gli “object imagers” formulano immagini fotografiche ancorate all’apparenza concreta degli oggetti, comprensive di aspetti di consistenza, texture e luminosità, gli “spatial imagers” lavorano su immagini più schematiche relative alla forma, alla disposizione spaziale e alla relazione fra le parti.

Per quanto riguarda i “verbalizers” o “verbal thinkers”, Rothman fa riferimento al lavoro dello psicologo e neuroscienziato Ethan Kross Chatter: The Voice in Our Head, Why It Matters, and How to Harness It“. Kross ha approfondito il contenuto di quello che viene definito loop fonologico, un circuito neurale deputato al mantenimento in memoria di informazioni di tipo fonetico e fonologico. Concettualizzato come una sorta di “taccuino degli appunti” che utilizziamo, fra le altre cose, per esempio, per memorizzare un numero di telefono, Kross sottolinea la sua utilità come strumento di gestione dei propri stati interiori. Anche molti bambini istintivamente parlano da soli per guidare il proprio comportamento, spesso ripetendo moniti, regole o incoraggiamenti ascoltati dai genitori, prima a voce alta e poi, crescendo, solo internamente. La ricerca ha evidenziato come il “goal-talk” sia pervasivo nei nostri dialoghi interiori, comportandosi come una voce che ci incoraggia o ci ricorda appuntamenti o scadenze.


Gli individui che utilizzano primariamente il monologo interiore, aggiunge Kross, hanno però un maggiore rischio di rimanere incastrati in pensieri negativi rimuginanti; inoltre, tendono a trascorrere la maggior parte del tempo a pensare a se stessi, perché questi monologhi interni gravitano spesso attorno alle proprie esperienze, emozioni, desideri e bisogni. Questa concentrazione su di sé rischia spesso di intrudere anche nelle conversazioni con gli altri. Secondo lo psicologo Bernard Rimé, esperienze negative sono in grado di sollecitare, non solo una maggiore ruminazione interiore, ma anche un maggiore bisogno di sfogarsi con gli altri, condividendo compulsivamente i propri pensieri negativi. Perciò nel suo libro, Kross propone anche una serie di strategie per limitare gli aspetti negativi di questo dialogo interiore e utilizzarlo come uno strumento utile a far fronte a esperienze negative. Per esempio, incoraggia a praticare il “distanced self-talk”, che consiste nel parlare interiormente a sé stessi utilizzando la seconda persona, come se stessimo dando un consiglio ad un amico.


Un altro tema riguarda la possibilità di conoscere i nostri pensieri, che ha portato lo psicologo clinico Russel T. Hurlburt a chiedere ad alcune persone di registrare i propri pensieri ogni volta che il dispositivo che portavano con sé faceva “beep”. Hurlburt verificò come la maggioranza delle persone trovasse particolarmente difficile riferire a posteriori, quello a cui stavano pensando prima del “beep”, rischiando di ricostruire i propri pensieri in modo eccessivamente generale e falsato.

Si tratta di un problema simile a quello che i fisici quantistici incontrarono nell’osservazione delle microparticelle. La semplice osservazione, infatti, alterava e fissava lo stato quantico di ciò che cercavano di osservare, determinando qualcosa che sarebbe altrimenti rimasto indeterminato. Questo è simile a quanto ci accade quando tentiamo di registrare i nostri pensieri, rischiando di forzarli all’interno di una forma che altrimenti non avrebbero. Il filosofo Eric Schwitzgebel, rimane ancora più scettico rispetto alla nostra possibilità di conoscere i nostri pensieri, asserendo come questi siano di natura troppo “onirica” per essere descritti.


Nel libro “The Self as a Center of Narrative Gravity”, il filosofo Daniel Dennett paragona la nostra vita mentale ad un romanzo di fiction, riferendosi al fatto che i racconti relativi ai nostri stati interiori siano intrinsecamente caratterizzati da una componente fittizia, senza tuttavia perdere di senso.


Rispondere alla domanda “A cosa stai pensando?” può essere dunque più facile forse per chi è abituato a pensare in modo dialogico-verbale, più difficile per chi deve tradurre rappresentazioni visive in parole; tuttavia, ognuno di noi, nel momento in cui esprime un pensiero, è condannato ad inserirlo in un racconto che lo altererà parzialmente, senza tuttavia renderlo meno significativo.


La riflessione rispetto al modo in cui pensiamo e alla nostra capacità di conoscere e raccontare i pensieri che facciamo rimanda al tema della possibilità di conoscere sé stessi, che rimane viva ancora oggi nelle ricerche di psicologi, psicoanalisti, neuroscienziati e filosofi, e ha origini antiche. Se le neuroscienze cognitive possono aggiungere molto alle nostre teorie, contribuendo a sondare le reti dell’attività delle strutture neurali che supportano i nostri processi di pensiero, la filosofia si può interrogare rispetto alla natura, le forme e i limiti dell’attività di conoscenza. Per quanto riguarda, da un punto di vista psicoanalitico, la possibilità di raccontare i propri pensieri, se è vero che per il fatto di essere comunicati a parole, i nostri contenuti si trasformano, è altrettanto vero che questa alterazione dipende ed è influenzata dalla presenza, appunto, di un interlocutore “Altro”, sia esso reale o immaginato. E se i nostri contenuti sono talvolta, come sostiene Schwitzgebel, troppo onirici per essere descritti, forse la stanza di analisi è il luogo dove è possibile, usando le parole dello psicanalista Thomas H. Ogden, “sognare sogni non sognati”.


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