'ZOOM DYSMORPHIA': HOW STARING INTO A WEBCAM HAS AFFECTED THE WAY PEOPLE SEE THEMSELVES
TODAY – BY KERRY BREEN – SEPT. 1, 2021
Le ricerche condotte durante la pandemia da Covid-19 hanno chiaramente evidenziato come milioni di persone in tutto il mondo abbiano sviluppato una forma particolare di dismorfismo corporeo, denominato Zoom Dysmorphia - dismorfismo da Zoom: con questo termine si fa riferimento ad una forma di tristezza o di insoddisfazione relativa alla propria immagine, resa ancora più intensa ed evidente dall’esposizione continua di sé di fronte alla webcam. Questo quanto si apprende dall’articolo pubblicato su TODAY il 1° settembre 2021, ove la dottoressa Arianne Shadi Kourosh, dermatologa e direttrice del Community Health presso il Massachusetts General Hospital, nonché a capo del team che ha condotto i primi studi in merito all’argomento, ha affermato che più del 70% dei 7295 partecipanti di una recente indagine ha dichiarato di sperimentare una “sensazione di ansia” riguardo al proprio aspetto.
“Una percentuale consistente” - ha riferito la dottoressa Kourosh - “ha affermato che avere acquisito consapevolezza circa la propria immagine si è rivelata una fonte di ansia. L’aumento del peso corporeo, le discromie della pelle, l’acne e le rughe costituiscono le maggiori fonti di preoccupazione”.
Le ricerche più recenti, infatti, attribuiscono gran parte degli effetti negativi della pandemia sulla salute fisica e mentale (tra cui difficoltà nel sonno, nell’alimentazione, generale peggioramento delle condizioni croniche, Kaiser Family Foundation – 2021) non solo alla mancanza del supporto sociale, ma anche all’aumentato numero di ore trascorse di fronte a una videocamera e all’utilizzo di strumenti atti ad alterare l’immagine che si proietta (come i filtri per le fotografie). La dottoressa Kourosh ha evidenziato come vi sia una chiara correlazione tra il numero di ore trascorse sui social media o l’utilizzo frequente di strumenti atti a modificare le fotografie e le sensazioni di ansia più intense e marcate in riferimento alla propria immagine.
Ben prima dell’avvento dei social media e delle ore trascorse in videochiamata nel corso degli ultimi mesi, la ricerca (Windheim, Veale & Anson, 2011) aveva dimostrato che osservare la propria immagine allo specchio poteva agire come trigger per gli individui con un disturbo da dismorfismo corporeo, innescando un processo cognitivo capace di innalzare i livelli di consapevolezza sul sé e lo stress associato. Ciononostante, il dismorfismo da Zoom sembra avere caratteristiche ancora differenti, giacché la vicinanza all’obiettivo delle videocamere da computer provocherebbe una distorsione dell’aspetto, restituendo, di fatto, un’immagine poco realistica.
Jessica Stern, psicologa clinica presso NYU Langone Health, ha invitato a riflettere sulla correlazione riscontrata tra la modificata percezione di sé osservata nell’ultimo anno e l’esposizione più frequente alla propria immagine; prima della pandemia, infatti, le persone non erano solite ricevere feedback sul proprio aspetto fisico, sul linguaggio del corpo e sulle espressioni del volto. L’esposizione online, inoltre, si è caratterizzata per essere – solitamente – un’immagine frontale, di cui era possibile curare diversi dettagli: non sentirsi più a proprio agio di fronte all’idea di essere osservati da altre persone da ogni prospettiva, senza avere alcun controllo, è una sensazione molto frequente, così come è emerso dalle numerose ricerche condotte e riportato nell’articolo di TODAY.
Ciò che sembra preoccupare maggiormente gli esperti, infatti, oltre all’aumentata richiesta di interventi chirurgici volti a modificare il proprio corpo, è che tra coloro che si sono dichiarati in ansia o preoccupati circa il proprio aspetto, sembra emergere anche una forte preoccupazione all’idea di fare ritorno sui banchi di scuola, sul posto di lavoro o ad eventi condotti in presenza: la realtà virtuale cui la pandemia da COVID-19 ha obbligato la popolazione mondiale ha avuto un impatto significativo sulla percezione di sé e sulla salute mentale delle persone, tanto da condizionare il ritorno alla vita sociale.
Il dottor Janis Whitlock, psicologo specializzato dell’età adulta e adolescenziale, ha suggerito a chi manifesta preoccupazioni all’idea di tornare a vivere eventi in presenza di riavvicinarsi a tali attività concedendosi il tempo necessario e con il supporto di amici o familiari. Nello specifico, se un giovane o un bambino sembra necessitare supporto per far ritorno a scuola o ad altri tipi di attività, non è da escludere che questo supporto possa anche essere di tipo professionale. Dallo studio condotto dalla dottoressa Kourosh è, infatti, emerso che i partecipanti di età compresa tra i 18 e i 24 anni sono apparsi i più inclini ad utilizzare filtri sui social media o durante le videochiamate, manifestando livelli più elevati di ansia rispetto ai coetanei che non ne hanno fatto uso. Lo stesso gruppo ha riferito un incremento negli accessi ai servizi di sanità mentale.
Per riprendere le parole della dottoressa Kourosh, “Acquisire consapevolezza di questo fenomeno e diffondere l’idea che non si è soli a sperimentare tali sensazioni, è un primo passo per comprendere questa nuova forma di sofferenza e combatterla”.
Traduzione e commento di Francesca Torretta e Giulia Romano
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