di Monica Bonessa e Silvia Valadè
Il 25 novembre è la giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne; una riflessione su questo tema appare dovuta e necessaria. Una riflessione che quest’anno assume forse un’importanza ancora più cruciale: con le restrizioni imposte per contenere la diffusione del virus, le donne che vivono con partner violenti si trovano sempre più isolate e lontane dalle figure e dalle risorse che potrebbero aiutarle.
Gli aspetti che assume la violenza di genere sono diversi e diversificati; alcuni sono immediati, altri sono, invece, impliciti e di difficile individuazione come la violenza assistita, di cui qui si vuole fare una breve disamina senza pretese di esaustività, e che rappresenta una delle declinazioni di essa.
Si tratta de "L’esperire da parte di un minore di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica e atti persecutori, quali lo stalking, su figure di riferimento o su altre figure affettiva significative adulte o minorenni" (CISMAI, 2005).
Il fatto di assistere – appunto – alle violenze subite dalla mamma (o comunque da un soggetto a loro caro e vicino) causa nei più piccoli e giovani gravi danni sul loro sviluppo psicofisico.
È facile immaginare perché i figli, i nipoti, i soggetti più fragili del nucleo, siano quelli che hanno meno risorse per interpretare e affrontare ciò che vedono o sentono, sono quelli che hanno meno possibilità di reazione e sono quelli che più soffrono il tradimento di quel patto non detto che vige nelle organizzazioni familiari in cui loro dovrebbero essere quelli protetti dai più grandi. L’esperienza di un ambiente familiare violento, disfunzionale e non protettivo può avere, intuitivamente, ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, non solo a breve termine. Tali circostanze possono influire sulla salute e sul benessere psichico protraendosi nel tempo e impedendo o ostacolando il corretto sviluppo.
Si tratta di un danno implicito, secondario, indotto. Un danno che tuttavia ha faticato e ancora fatica a trovare riconoscimento nel nostro sistema giuridico.
Il primo passo verso l’attribuzione di dignità alla sofferenza delle c.d. vittime secondarie della violenza di genere è stato fatto a livello sovranazionale con la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica Istanbul, 11 maggio 2011 [1], che ha disposto – tra le altre misure - che venissero considerate come circostanze aggravanti nel determinare la pena per i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione: (…) d) il reato è stato commesso su un bambino o in presenza di un bambino.
Due anni dopo, in Italia, è stata approvata la legge del 15 ottobre 2013 n. 119 che ha introdotto all’art. 61 c.p. l’aggravante di aver commesso il delitto in presenza di un minore[2].
E solo nel 2019 la legge 19 luglio 2019 n. 69 ha introdotto lo specifico aumento fino alla metà della pena se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore.
Si tratta quindi di circostanze aggravanti che si concretizzano quando le continue violenze fisiche, verbali, psicologiche, economiche e della dignità personale sono avvenute in presenza del minorenne il quale, assistendo a tutto questo e alle sue conseguenze, viene esposto a disfunzioni comportamentali, psicologiche, fisiche, sociali e cognitive.
Alla luce di quanto sopra, appare evidente come si sia ancora molto lontani dal riconoscimento di un’autonoma figura di reato, ma comunque siamo di fronte a una forma di violenza che traduce la deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza da parte degli adulti di riferimento degli elementari e insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi. Si tratta, in sintesi, di qualificare la violenza agita e subìta come indice di erroneo esercizio della responsabilità genitoriale. Le dinamiche della violenza domestica, di fatto, interferiscono sulla relazione con i figli, alterando l’espressione delle funzioni genitoriali della madre e del padre maltrattante e i modelli di attaccamento. Le conseguenze di un sistema di relazioni primarie inadeguate e di figure di riferimento trascuranti o maltrattanti sono molteplici e si riflettono sulla quasi totalità degli ambiti di vita dell’individuo. Crescere in un ambiente poco accudente e intriso di violenza può avere ripercussioni traumatiche profonde e difficilmente trascurabili.
In quest’ottica allora possono essere due le considerazioni da svolgere: una in ordine alle modalità di applicazione processuale delle norme succitate; l’altra rispetto alla necessità ancora evidente di fare formazione.
Quanto al primo aspetto, e molto sinteticamente, sembra opportuno sollecitare una maggiore insistenza difensiva da parte dei Difensori di parte offesa in ambito penale nel momento dell’esercizio dell’azione penale da parte della Procura.
Troppo spesso capita che i minori che abbiano assistito alla violenza non vengano considerati vittime del reato nonostante venga poi contestata all’imputato l’aggravante di aver commesso il fatto alla presenza dei figli o comunque di minorenni.
Se nei termini stretti di una aggravante non è prevista la automatica qualificazione del soggetto nell’alea delle vittime, è altrettanto vero e obiettivo che questo pone le Parti nella necessità di obiettivare se si sia verificata una condizione di pregiudizio ai suoi danni.
Che questo poi non trovi accoglimento processuale è contraddittorio.
Dovrebbe, dunque, di volta in volta essere valutata la possibilità di sollecitare una formulazione del capo di imputazione dettagliata in modo tale da evidenziare l’effettivo coinvolgimento – seppur come spettatore - del soggetto più fragile nei fatti contestati. È questa una condizione che permetterebbe di annoverare i minori interessati tra le persone lese dalle condotte del reo ponendo i presupposti per la loro possibile costituzione di parte civile autonoma. Perché si tratta di una lesione vera e propria, sebbene non fisica, ma psicologica.
In altre parole, si tratta di utilizzare l’impianto attualmente a nostra disposizione per garantire una concreta tutela degli specifici superiori interessi dei minori vittime di violenza assistita. Ossia di violenza familiare. Violenza di genere. Una violenza che potenzialmente avrà conseguenze psichiche molteplici e pervasive.
Ecco perché altrettanta importanza in questo sistema assume la formazione qualificata agli operatori. Perché ove manca la conoscenza, manca la tutela.
È quanto mai necessario, dunque, fare formazione in tutta Italia a educatori, psicologi, medici, avvocati e operatori dei centri antiviolenza per una diffusione il più capillare possibile delle buone prassi utili ad affrontare e arginare questo triste “fenomeno”.
La violenza assistita è una forma di maltrattamento che può determinare nei minori effetti dannosi, a breve, medio e lungo termine influenzando il loro sviluppo psicologico ed emotivo. L’intervento di una rete di operatori che si prendano carico della salute fisica e psichica di questi bambini e dei ragazzi è vitale e imprescindibile per la riparazione dei danni da essi innegabilmente subiti.
Il coinvolgimento dei bambini nella violenza domestica può avvenire non solo durante la convivenza dei genitori, ma anche nella fase di separazione e dopo la separazione stessa. Queste ultime due fasi sono particolarmente a rischio per il coinvolgimento dei figli da parte del padre/partner violento, il quale può utilizzare i bambini come strumento per reiterare i maltrattamenti sulla madre e per continuare a controllarla. Inoltre, in queste fasi aumenta il rischio di escalation della violenza e la possibilità di un esito letale (omicidio della madre, omicidi plurimi, omicidio-suicidio).
È per questo fondamentale che la formazione offra strumenti di lettura e intervento tempestivo anche a coloro che hanno a che fare in via diretta con i più piccoli: serve un lavoro sinergico per il contrasto a un sistema complesso che coinvolge aspetti emotivi, giuridici e di pericolo.
La violenza di genere è, come scritto, un sistema complesso, un fenomeno tristemente in aumento e ancora lontano da una soluzione, che ha radici profonde in una cultura diffusa che nega il machismo e allo stesso tempo così facendo lo alimenta.
Non abbiamo risposte, ma riteniamo importante stimolare un nuovo modo di dialogare, offrendo nuove prospettive in un’ottica costruttiva e di confronto tra discipline e professionisti.
Avv. Monica Bonessa
Dott.ssa Silvia Valadè
[1] Convenzione di Istanbul - Articolo 26 - Protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza 1. Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo necessarie per garantire che siano debitamente presi in considerazione, nell’ambito dei servizi di protezione e di supporto alle vittime, i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione. 2. Le misure adottate conformemente al presente articolo comprendono le consulenze psico-sociali adattate all’età dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione e tengono debitamente conto dell’interesse superiore del minore [2] Art. 61 comma 11-quinquies c.p.: l'avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza
Comments