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L’Esperienza dell’allattamento tra idealizzazione e realtà: il punto di vista delle psicologhe dell’

Aggiornamento: 19 mar 2019

A cura di Francesca Locati e Chiara Suttora[2]


La cultura e il sostegno all’allattamento al seno è fondamentale dopo lo strapotere di anni delle multinazionali del latte artificiale, ma forse si dovrebbe interrogare sulla deriva dogmatica e fanatica a cui sta arrivando. Si parla sempre del corpo della donna: anche questo lo riguarda. La donna che non allatta, è assiomatico, non si è impegnata abbastanza, è stata pigra o, nella narrazione a carattere pietistico-ipocrita, non è stata aiutata abbastanza o sostenuta, poverina. Forse è il momento di una riflessione“.


Queste poche righe sono tratte da una lettera indirizzata al blog di Concita De Gregorio e pubblicate sulle pagine di Repubblica Online nel mese di aprile 2018. Sono parole di rabbia e fatica di una donna, da poco diventata madre, che ha visto trasformare l’esperienza dell’allattamento della sua primogenita in una condizione di giudizio e svalutazione. Il richiamo alla riflessione di questa testimonianza, oltre che il frequente contatto con situazioni simili in qualità di donne, ricercatrici e terapeute, ha sollecitato in noi il desiderio di soffermarci e rilanciare il dialogo su questo tema. Abbiamo posto domande e cercato risposte ed opinioni che possano aggiungere a questo ambito – non privo di esperti di ogni sorta e di tifoserie rumorose –  il punto di vista degli psicoterapeuti dell’età evolutiva (grazie alla collaborazione dei docenti della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Età Evolutiva di Milano). L’obiettivo è quello di offrire una prospettiva che metta al centro lo psichismo del bambino e tenga conto innanzitutto del benessere della madre, del figlio, della diade e dell’intero nucleo famigliare.


Nella vostra esperienza clinica, capita spesso di incontrare famiglie con alle spalle problematiche nell’allattamento? Di che tipo? Quali sono le difficoltà più comuni delle mamme nella esperienza dell’allattamento e come possono essere affrontate?

Capita abbastanza spesso di incontrare storie di allattamento difficili, sia nei gruppi post-partum in consultorio, sia a volte nell’Infant Observation[3] sia in casi di donne seguite in terapia. Emergono, in particolare, difficoltà nell’avvio dell’allattamento, sentimenti di inadeguatezza, paure che il bambino non cresca bene, delusione, dolore fisico e senso di impotenza, come se una preordinata rappresentazione idealizzata dell’esperienza di allattare il proprio bambino si infrangesse di fronte a difficoltà impreviste.

Più nello specifico, le difficoltà si possono articolare almeno su due versanti. Il primo relativo alla relazione con il proprio bambino: la percezione della presenza/assenza del latte, la fiducia nella competenza del bambino, la fiducia nella propria competenza e nella “bontà” del proprio nutrimento, il riconoscimento delle caratteristiche del bambino (avido, lento, aggressivo, competente, ecc.), il bisogno di controllo, la sperimentazione del vincolo e della estrema dipendenza reciproca.  Sono tutte esperienze nuove, delle quali di solito non si parla, come se fossero implicite, magiche o naturali, mentre hanno un peso emotivo molto forte al quale non si è preparate. Tutta questa fase ha bisogno di grande sostegno e non di prescrizioni critiche, per permettere che si sviluppi una modalità di relazione che è tipica e unica di ciascuna diade. Il secondo versante può riguardare l’immagine di sé, che riguarda sia il sé corporeo che il sé sociale. L’allattamento al seno, infatti, implica una trasformazione ulteriore della percezione del proprio corpo, una disponibilità ad una estrema vicinanza, un cambiamento di attribuzione di senso alle sensazioni fisiche, che non tutte le donne sono disponibili a sostenere per complessi motivi consci e inconsci, e soprattutto in un momento delicato, nel quale il nuovo bambino deve essere riconosciuto per quello che è nella realtà, a fronte, anche qui, di aspettative spesso idealizzate, sviluppate nel corso della gravidanza. Rispetto al sé corporeo la paura è relativa al dolore inziale, ad un corpo ed un seno modificato e non più attraente. Relativamente, invece, al sé sociale la paura è legata al giudizio: “se non allatto non sono una buona madre”, “vorrei smettere di allattare, ma temo che gli altri pensino che sia troppo presto, che non mi sforzo abbastanza per mio figlio”. Il timore del giudizio, a lungo termine, può portare a una normalizzazione difensiva, da parte delle madri, delle esperienze negative di allattamento; nel racconto spontaneo delle consultazione con madri di bambini oltre l’anno, spesso, infatti, i problemi e le difficoltà legate a questo spariscono.


Quali sono le proposte, nell’ottica di sostegno psicologico alla diade, per affrontare al meglio l’esperienza dell’allattamento?

Crediamo che sia molto importante il sostegno ai primi giorni dell’allattamento, attraverso un counseling intelligente, che rinforzi le competenze in via di sviluppo, che non sia critico o eccessivamente prescrittivo, e che dia fiducia alle madri, sostenendole nel loro percorso decisionale, indipendentemente dall’esito dello stesso. Si tratta di una funzione importante che alcuni consultori sono in grado di fare, anche per prevenire o per monitorare episodi di depressione o baby blues. Tale funzione dovrebbe essere generalizzata a tutte le strutture che si occupano a vario titolo di accompagnamento alla crescita.


Cosa ne pensate dell’allattamento a richiesta? Che effetti ha nella costruzione della relazione mamma-bambino?

Tutte le modalità di allattamento possono andare bene o male a seconda di come sono vissuti dalla madre. Il vissuto e l’esperienza della madre influenza, ovviamente, la sintonizzazione della coppia madre-neonato: maggiore è il benessere materno, migliori saranno le interazioni con il neonato e, a cascata, il suo stesso benessere e sviluppo. Crediamo che ogni coppia madre-bambino debba trovare la propria sintonia con le proprie modalità e inclinazioni. L’allattamento a richiesta può andare benissimo e assumere un ritmo soddisfacente, ma può anche causare disturbi quando viene utilizzato come “calmante” per qualsiasi disagio del bambino o quando impedisce la decodifica di segnali diversi di pianto. Una minima regola temporale spesso aiuta le mamme a favorire l’instaurarsi di un ritmo più funzionale.


Cosa pensate invece dell’allattamento a orari e dell’impatto sulla relazione della diade?

Analogamente gli orari rigidi possono creare ansia e insoddisfazione e alzare il livello di eccitazione del bambino, che è poi difficile da soddisfare. Pensiamo che indipendentemente dalla soluzione adottata, sia utile aiutare le mamme a riferirsi a qualche parametro generale (tipo i tempi necessari alla digestione, il non somministrare latte su latte, ecc.) e poi dare loro il permesso di regolarsi a seconda di come si sentono meglio, rinforzando le competenze emergenti.


L’allattamento artificiale ha effetti negativi nella relazione madre-figlio? Come le madri approcciano la necessità di passare/intraprendere l’allattamento artificiale?

Da un punto di vista oggettivo, non pensiamo che l’allattamento artificiale abbia effetti negativi nella relazione madre-figlio, soprattutto nei casi in cui, per qualsiasi motivo, sia questo fisico o psicologico, non sia indicato quello al seno. Se il passaggio all’allattamento artificiale è necessario deve essere sostenuto e non drammatizzato, e non si vede motivo per cui non debba essere accettato dalle madri. Tuttavia, l’allattamento artificiale potrebbe avere effetti negativi sulla diade, se la madre si sente inadeguata perché non allatta al seno. In questo senso, certe posizioni integraliste non aiutano perché tendono a colpevolizzare e/o a sollecitare il vissuto di inadeguatezza delle madri che non allattano. Certamente quando subentrano difficoltà a trovare un latte artificiale ben tollerato dal neonato si potrebbe creare un circolo vizioso che rende più difficile l’incontro tra i due.


L’allattamento al seno porta comunque sempre a benefici per il bambino e per la diade?

L’allattamento al seno ha indubbi risvolti positivi, essendo il più indicato per la salute della mamma – nella prevenzione dei tumore al seno (Collaborative Group on Hormonal Factors in Breast Cancer, 2002) – e per lo sviluppo nel bambino delle difese immunitarie del neonato, oltre che come elemento nutrizionale. I benefici della relazione madre-bambino, con l’allattamento al seno, ci sono, a condizione che questo avvenga in modo armonico e con soddisfazione reciproca. Naturalmente vanno superate con pazienza e sostegno adeguato le difficoltà iniziali. Quando non sussistono problemi e/o vengono gestiti e superati prontamente, l’allattamento al seno può essere un’esperienza molto gratificante per la mamma e il bambino.


Come l’esperienza di allattamento influenza l’affrontare esperienze separative quali lo svezzamento?

Una buona esperienza di allattamento rappresenta, per dirla con Bowlby, una base sicura per partire per nuove esperienze, anche alimentari. Un’esperienza di allattamento difficile, per contro, potrà rendere più difficoltoso l’approccio del bambino ad altri cibi. Lo svezzamento, infatti, è un altro passaggio cruciale, perché implica l’affidamento del bambino a un cibo “non me” che è spesso connotato come pericoloso o dannoso in quanto separato. Tuttavia, contiene anche un elemento di liberazione da vincoli stretti, che possono essere vissuti con insofferenza, e questo permette la ricostruzione di una parte di sé autonoma e intera. Lo svezzamento, come altri processi di separazione, è profondamente ambivalente. Bisogni antitetici di autonomia e di dipendenza che riguardano entrambi i membri della diade madre-bambino contribuiscono infatti a connotare questo processo come molto delicato e complesso.


Cosa si intende per allattamento prolungato?

Per allattamento prolungato pensiamo all’allattamento oltre il primo anno di vita. Con le ovvie eccezioni, crediamo che possa non agevolare la separazione e l’autonomia del bambino, evidenziando con maggior chiarezza gli elementi di ambivalenza presenti nella separazione e nella crescita. Non sono infrequenti i casi di allattamento prolungato nelle anamnesi dei bambini con problemi di separazione e difficoltà nel tollerare le frustrazioni con conseguenti, più o meno lievi, disturbi del comportamento. Il problema sembra essere il sovrainvestimento idealizzante dell’allattamento da parte delle madri come conseguenza di un bisogno costrittivo di realizzare un ideale di maternità caratterizzato da una disponibilità priva di limiti. L’ideologia spesso sembra intervenire a sostegno di bisogni emozionali collegati a questo ideale genitoriale che non viene riconosciuto nelle sue determinanti personali biografiche e trascrive un ipercoinvolgimento narcisistico con il figlio. Gli aspetti ideologici rinforzano, infatti, le caratteristiche personali.


Che impatto può avere l’allattamento prolungato sul bambino e la sua relazione con il genitore?

La legittimazione di questa pratica, espressa nei numerosissimi siti in favore dell’allattamento prolungato, sostiene che una disposizione ad attendere e a favorire lo sviluppo di uno svezzamento spontaneo (al più tardi entro i 6 anni!), dovrebbe garantire al bambino uno stabile sentimento di sicurezza. Tale argomentazione, alla prova del riscontro clinico, non sembra verosimile. Siamo probabilmente troppo affezionati al concetto di frustrazione ottimale come strutturante per lo sviluppo del processo di separazione-individuazione, al concetto di madre sufficientemente buona e non ideale, alla funzione dell’oggetto transizionale come fondativo della capacità di essere solo, all’importanza della funzione genitoriale relativa al porre regole e limiti, che sono una precisa responsabilità dell’adulto di fronte alla pulsionalità che governa il processo primario, per essere convinti dell’utilità di essere a lungo fisicamente disponibile per una rassicurazione concreta del legame, che rischia di evitare il riconoscimento dell’importanza della vicinanza emozionale empatica. L’allattamento prolungato, inoltre, è spesso associato alla pratica elegantemente denominata “co-sleeping”, allo scopo di favorirlo. Permettere ai bambini di dormire nel lettone coniugale sembra essere un’altra forma di rinuncia alla funzione riflessiva, che contrasta il riconoscimento del confine tra generazioni e ruoli, contribuisce a confonderlo e in nessun modo sembra possa sostenere lo sviluppo di un sentimento di sicurezza “in proprio” per il bambino.


Esistono esperienze di gestione dell’allattamento estere che differiscono da quella italiana?

L’allattamento, come tutte le azioni basiche della vita, è intriso di elementi culturali. Ogni società e ogni gruppo di donne ha proprie modalità culturali di protezione, sostegno, trasmissione di competenze materne. I modi sono diversi ma la finalità è quella di aiutare le donne giovani nell’acquisizione del proprio compito. I modi di allattare, portare e svezzare i bambini variano da luogo a luogo e le co-madri hanno nelle società tradizionali, la funzione di accompagnamento e supporto in un compito che spesso è condiviso dal gruppo e non è considerato appartenente ai singoli genitori. La condizione migratoria può destabilizzare profondamente la competenza materna della donna e i clinici dovrebbero porre grande attenzione a questi passaggi. Alcuni progetti psicologici di home-visiting hanno come obiettivi proprio il sostegno alle prime fasi della relazione sia con donne italiane sia con migranti in ottica transculturale.


Come il contesto familiare e culturale influenza l’esperienza dell’allattamento in Italia?

Il contesto familiare e culturale influenza tempi e modi dell’allattamento. La medicina occidentale ha proposto cose diverse nel tempo. Pensiamo che attualmente venga proposto un modello estremamente rigido, che sia pure su basi scientifiche nutrizionali, ma che non tiene in alcun conto la complessità degli aspetti relazionali e intrapsichici coinvolti nell’allattamento al seno e ne fa un compito mitizzato e obbligatorio, pena un giudizio negativo sulla competenza materna. Questo può essere molto penalizzante e aggiungere ansia in un momento difficile.


[1] RINGRAZIAMO LE DOTT.SSE EGIDIA ALBERTINI, IDA FINZI, LAURA MAGNINI E ALESSANDRA SALA PER IL LORO DECISIVO CONTRIBUTO

[2] DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI MILANO-BICOCCA

[3] L’INFANT OBSERVATION È UNA ESPERIENZA DI FORMAZIONE PSICOANALITICA CHE PREVEDE L’OSSERVAZIONE DEL PRIMO ANNO DI VITA DI UN NEONATO CON VISITE A CADENZA SETTIMANALI. PER APPROFONDIMENTI SI RIMANDA A BONAMINIO V., IACCARINO B. (A CURA DI). L’OSSERVAZIONE DIRETTA DEL BAMBINO. TORINO, BORINGHIERI, 1984.


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