Uno sguardo sulla psicosi e il suo trattamento
di Silvia Bortolotti
Un volto, due destini è la nuovissima miniserie targata HBO, tratta dal romanzo I Know This Much Is True, che ha debuttato sul grande schermo poco più di un anno fa. Uno straordinario Mark Ruffalo (vincitore del Premio Golden Globe come Miglior Attore) interpreta entrambi i gemelli protagonisti, Thomas e Dominick, interagendo con sé stesso «in una prova attoriale che ha dell'incredibile» (Matteo Maino, movieplayer.it).
A seguito della perdita della madre, Dominick si ritrova a doversi occupare del fratello affetto da schizofrenia paranoide, una patologia che si manifesta anche con allucinazioni visive e uditive. Attraverso un vecchio manoscritto di famiglia, Dominick ripercorre la sua infanzia e le vicende che hanno influenzato la sua vita e la vita del fratello, concedendosi un viaggio alla scoperta di sé e delle proprie radici.
Il senso di angoscia caratterizza l’intera serie, dalla prima all’ultima puntata, la stessa angoscia che Dominick esprime costantemente, alla disperata ricerca di una cura per il fratello mentalmente instabile e giudicato pericoloso. Dolore, tormento e disperazione, a volte espressi, ma più spesso tacitamente soffocati, riempiono le scene e raccontano il duro vissuto di coloro i quali si trovano ad assistere persone care affette da una psicopatologia tanto faticosa per chi la sperimenta, tanto incomprensibile per chi la vede “da fuori”.
Mark Ruffalo interpreta entrambi i volti di questa commovente e drammatica storia d’amore fraterna con straordinaria efficacia: il talento dell’attore diviene evidente nella sua capacità di dare volto all’umanità della malattia e alla disperazione di un uomo sano ma afflitto dall’impossibilità di salvare l’uomo malato. Lo spettatore può così insinuarsi nell’intimità del rapporto fraterno, così profondamente reale perché altrettanto umano è percepire il denso strato emotivo di questa miniserie «dolorosa da vedere ma difficile da ignorare» (Adriano Ercolani, ComingSoon.it).
Il tema del trattamento psicoterapeutico della psicosi è però appena sfiorato dal regista. Dominick chiede aiuto ad una professionista e si sottopone ad una serie di colloqui di psicoterapia, nel corso dei quali riesce a comprendere meglio la patologia del fratello e ad affrontare il doloroso vissuto emotivo che lo incatena. Non si fa cenno, invece, alla terapia di Thomas, se non attraverso un fugace rimando al trattamento farmacologico a cui è sottoposto e attraverso la gentile figura dell’assistente sociale che segue il suo caso e che si rivelerà di grande valore.
Ad oggi, i disturbi dello spettro della schizofrenia (APA, 2013) vengono trattati prevalentemente attraverso l’utilizzo della terapia farmacologica che rappresenta un utile “salvagente” durante l’acuzie, spesso fonte di profonda sofferenza e angoscia soggettiva. Tuttavia, il trattamento d’elezione di questi quadri non può non prescindere da un’integrazione di differenti cure specialistiche, ad esempio comprendendo la terapia personale affiancata dalla terapia familiare e da interventi di supporto e di recupero psicosociale (Tamminga, 2020). Di fatto, seppure il farmaco risulti essere il componente principale del trattamento, l’approccio integrato che affianca alla farmacoterapia la riabilitazione psicosociale, la psicoterapia e la psicoeducazione dei familiari sembra essere sempre più efficace nella cura di questo tipo di pazienti.
Il sistema di lavoro comprende professionisti che saturano campi molto diversi tra loro: farmacologico, socioeducativo, psicoeducativo, psicologico, neurologico, eccetera. Molteplici professionalità con competenze peculiari interagiscono e lavorano ognuna su specifici aspetti disfunzionanti del paziente psicotico, ognuna da un punto di vista differente e con finalità distinte ma complementari.
All’interno di un sistema così variegato e sfaccettato, tanto si è scritto e detto sulla terapia della psicosi; allo stesso tempo i contributi sulla “curabilità” dei pazienti gravi hanno una storia lunga e, come sappiamo, a tratti complessa.
Il dibattito, in effetti, ha origine antica. Freud (1915) aveva affermato l’impossibilità di trattare attraverso la psicoanalisi i pazienti schizofrenici, poiché non in grado di investire sul mondo esterno e quindi sulla relazione terapeutica. Alcuni suoi successori (Sullivan, Fromm-Reichmann, Arieti, Benedetti, ecc.), tuttavia, tentarono di applicare la psicoterapia psicoanalitica alla schizofrenia, con molto successo in alcuni casi (Rogers et al., 1967; Karon & VandenBos, 1981) e meno in altri (May, 1968; Grinspoon, Ewalt & Shader, 1967; 1972).
Michele Stufflesser, psicoanalista e psichiatra, a tal proposito riflette: «Ci si può chiedere che cosa ci faccia uno psicoanalista […] in prima linea, testimone di altri modi di intendere la cura, alla ricerca continua di improvvisi spiragli e aperture. Credo che il nostro compito sia probabilmente quello di mantenere aperto il dialogo con le varie istanze presenti. Si tratta di mantenere il contatto con “l’umano” che è lo specifico della psicoanalisi, di non lasciare, finché è possibile, che parti della scena mentale rimangono isolate o inascoltate» (Stufflesser, 2002).
La ricerca sembra evidenziare una certa efficacia della psicoterapia psicodinamica, soprattutto se centrata su una relazione terapeutica rassicurante e di supporto e non, come accade nella tecnica psicoanalitica classica, sull’interpretazione e sulla ricerca dell’insight. L’intervento psicoterapeutico in questi casi sembra avere come obiettivo principale quello di costruire un’alleanza terapeutica con il paziente e i suoi familiari, sulla base di una relazione empatica e di comprensione della malattia, spesso cronica e di difficile gestione, limitante dal punto di vista del malato ma soprattutto estremamente faticosa per chi gli sta accanto.
A tale proposito, lo psicoanalista Giovanni Carlo Zapparoli propose un’interessante riflessione: «Dobbiamo infatti riuscire a creare con il paziente un’alleanza attraverso un’area di segreto condiviso, area necessaria per diminuire le manifestazioni pericolose e incomprensibili, cioè la psicosi pubblica, e strutturare una psicosi privata, area costituita dalla relazione terapeutica, in cui le manifestazioni dei suoi bisogni specifici, ad esempio, di onnipotenza, possono venire accettate e contenute, perdendo il loro carattere di pericolosità. […] Si arriva, attraverso questa modalità di intervento terapeutico, a strutturare una posizione molto importante, per cui le manifestazioni psicotiche vengono ridotte e mantenute in un ambito circoscritto, e a quella che può essere considerata la guarigione sociale. […] Questo è un aspetto che è essenziale che venga compreso e applicato da chi desidera realizzare un trattamento di questa categoria di pazienti, basato su una comprensione della loro specificità e non su una attribuzione di nostre convinzioni o ideologie» (Zapparoli, 2008).
Bisogna certamente prendere atto che il tempo necessario e l’esito non sempre soddisfacente della psicoterapia della psicosi non soddisfano le aspettative di “massima resa con il minimo sforzo” della società contemporanea. Ciò nonostante, essa permette la conoscenza vera e profonda del paziente psicotico – una conoscenza certamente tanto intensa quanto faticosa – e l’instaurarsi di una relazione contenitiva. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di tempo, un tempo che oggi è sempre meno compatibile con le esigenze della collettività. Al riguardo, per riprendere la riflessione di Roncarati (2017), potremmo chiedercise il trattamento psicoterapeutico della psicosi non rientri in quelle aree della esistenza umana dove ci si trova in un diverso essere nel tempo, riconoscendone così il valore e la rilevanza, al di là della complessità intrinseca.
È necessario, dunque, che gli addetti ai lavori riflettano su costi e benefici. Ne vale la pena? Il tempo speso nella cura, è tempo ben speso? La nostra risposta non può che essere affermativa. Ciò nonostante, è doveroso sottolineare l’estrema importanza di un approccio multisistemico e multifocale che includa professionalità distinte, accomunate da un obiettivo comune di comprensione e cura. La condizione di criticità in cui si trova il paziente psicotico e il livello di disorganizzazione che può raggiungere la patologia è tale da non potersi permettere un approccio limitato alla psicoterapia. Come evidenziato da Zapparoli, «dato che i bisogni del paziente sono molteplici è necessaria una pluralità di interventi realizzati da esperti in diverse discipline: ma farmacoterapeuta, psicoterapeuta, chi svolge l’assistenza e chi svolge la rieducazione, devono essere consapevoli della necessità di usare una metodologia di integrazione. Uno di questi esperti non può realizzare da solo il proprio intervento, senza tener conto di quello degli altri». Anche Stufflesser sottolinea come sia importante «evitare alcuni errori del passato come certe presunzioni e pretese di autosufficienza a discapito della necessità di un rinnovato dialogo, di una ricollocazione della psicoanalisi, oggi tanto più auspicabile, nei confronti della stessa psichiatria e delle altre discipline che si occupano della sofferenza mentale».
La psicoterapia psicodinamica deve necessariamente inserirsi all’interno di un sistema di sostegno complesso e deve centrare il suo intervento su obi, all’interno di un macrocontenitore che elabora differenti aspetti disfunzionanti, nella piena consapevolezza dei propri limiti e della complessità della malattia che impedisce alla psicoterapia di funzionare se non inserita in un sistema di lavoro ampio ed eterogeneo.
Se è vero che la psicoanalisi classica ha insegnato a scoprire gli elementi psicopatologici nascosti negli atteggiamenti superficiali dei neurotici e in tutte le sviste e i lapsus della nostra vita quotidiana, la psicoterapia della schizofrenia, facendo un secondo passo innanzi, ci ha insegnato a vedere ciò che vi è di più semplicemente umano dietro tutti gli elementi psicopatologici.
Gaetano Benedetti
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