di Susanna Lupo
“Il comportamento di attaccamento è quella forma di comportamento
che si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità
nei confronti di un’altra, chiaramente identificata, ritenuta in grado
di affrontare il mondo in modo adeguato.
Questo comportamento diventa evidente ogni volta che la persona
è spaventata, affaticata o malata,
e si attenua quando si ricevono conforto e cure”
(J. Bowlby, 1988)
In questo complesso periodo storico, attraversato, come ormai ben sappiamo, da un grave disastro collettivo dovuto alla diffusione del COVID-19 anche nelle nostre piccole realtà, lo psicologo, inevitabilmente, si trova a dover inserire tale tema all’interno dei dialoghi con i propri pazienti. Il setting, altresì, ha subito importanti modifiche: sedute a distanza, videochiamate, messaggi, telefonate.
Pur essendo tutti, anche se a diversi livelli, esposti al Coronavirus, vittime delle restrizioni e degli accorgimenti che ha comportato, delle emozioni ad esso connesse, talune persone sono da considerarsi come “vittime” in una differente accezione. La Psicologia dell’Emergenza, al riguardo, si rifà alla classificazione di Taylor e Frazer (1981) per classificarle: vittime di primo tipo (chi subisce direttamente l’evento), secondo tipo (i di loro parenti/persone care), terzo tipo (il personale di soccorso), quarto tipo (la comunità coinvolta), quinto tipo (individui il cui equilibrio psichico predispone all’insorgenza di un disturbo emozionale, seppure non coinvolti direttamente) e sesto tipo (coloro che, per fortuite circostanze, non sono di primo tipo ma avrebbero potuto, sentendosi ugualmente implicati).
Anche i soccorritori, dunque, sono vittime oltre che, per l’appunto, “soccorritori”: medici, infermieri, Forze dell’Ordine, operatori sanitari di vario genere, personale delle ambulanze, volontari ecc.: chi sta lavorando a contatto, quotidianamente, con il COVID-19 e con le sue sofferenze, fisiche e psicologiche. Pur tendendo, in buona parte, ad attingere ad una soglia di tolleranza elevata rispetto agli eventi traumatici, le vittime di terzo tipo rischiano ugualmente di manifestare disturbi psicopatologici a seguito della “traumatizzazione vicaria” (da DSM-5, “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, APA, 2014), senza escludere, in aggiunta a ciò, che potrebbero anche essere, al tempo stesso, vittime di primo e secondo tipo. Entrando in contatto con individui traumatizzati e stabilendo con questi ultimi una relazione, il soccorritore potrebbe, dunque, essere investito dal medesimo trauma, pur se indirettamente, e sviluppare una sintomatologia post-traumatica: ansia, attacchi di panico, disturbi del sonno, irritabilità, iperarousal, affaticamento, difficoltà di concentrazione e/o memoria, isolamento, pensieri negativi e intrusivi, umore depresso, vissuti di colpa. Aumentando le esposizioni a simili eventi, aumenterà, in parallelo, il rischio di sviluppare un vero e proprio “Disturbo post-traumatico”, oltre ad accrescere la comorbidità con altri disturbi.
Fondamentale risulta, quindi, per il clinico, fornire quanto prima il dovuto sostegno anche alle vittime di terzo tipo: prendere in cura chi cura, supportare chi sta supportando. Si sottolinea che il benessere psicologico dei soccorritori, peraltro, come effetto a cascata, avrà una influenza positiva sulla di lui famiglia, ma altresì sull’intera comunità.
Non è detto che le vittime di terzo tipo affrontino, in seduta, il tema del COVID-19, anche se, forse, è ciò che il clinico si aspetterebbe. Non è detto che si sentano più tranquilli ad effettuare i colloqui a distanza. Non è detto che abbiano sviluppato necessariamente emozioni, pensieri, credenze, memorie post-traumatiche, quantomeno per il momento e/o così nitidamente. Va ricordato, infine, come le reazioni di ogni paziente non siano riconducibili unicamente al presente, ma anche al loro pregresso, alla loro storia, anche transgenerazionale, unica ed individuale.
Carl R. Rogers (1902-1987) parla, in ambito terapeutico, di “accettazione incondizionata” di vissuti ed esperienze portate dal paziente – fa loro riferimento nominandoli “Clienti” -, accettandolo e valorizzandolo senza interpretazione o giudizi; comporta il riconoscimento della libertà di essere e sentire in un determinato modo piuttosto che in un altro. “Fors’anche, dunque, allo stato attuale, l’accettazione che alcuni pazienti possano prediligere una forma di colloquio de visu, per sentirsi accolti, supportati, contenuti, liberi, altresì, nel loro essere, a propria volta, ipotetici portatori del virus e, fuori di dubbio, a contatto con lo stesso? “
Non tutte le strutture/studi, ovviamente, possono garantire le dovute condizioni igienico-sanitarie per colloqui di persona, a protezione del paziente ed anche del terapeuta. E non tutti i clinici - oltre, come detto, non tutti i pazienti - per diversi motivi, ritengono di procedere in tale setting. La complessità è ampia e molteplice: vestizione e svestizione; calzari, mascherina, guanti; igienizzazione prima e dopo dell’ambiente da una parte; il pensiero e il senso di responsabilità verso familiari più o meno a rischio; la paura di essere infettati e/o di infettare.
E’ bene ricordare, inoltre, come l’American Psychological Association (APA), la più importante a livello mondiale, ha studiato approfonditamente il fenomeno della psicoterapia a distanza già da tempo, conseguendo ottimi risultati.
Ciononostante, in alcuni casi soprattutto, potrebbe, forse, risultare preferibile una modalità di trattamento non a distanza. Terminare un turno di lavoro e recarsi nell’ambulatorio psicologico nei pressi, per esempio all’interno della medesima “casa madre”, come un ospedale, una caserma, ecc.: un luogo coincidente per terapeuta e paziente ove, allo stesso tempo, quest’ultimo possa concedersi di essere “soccorso”, di essere vulnerabile, bisognoso di contenimento e accettazione anche nel suo essere stato a contatto con il COVID-19, sebbene con vesti differenti. Per altri, invece, un luogo esterno, quali lo studio professionale privato, un altro ambulatorio o Centro clinico.
Per una buona efficacia del trattamento, dunque, prima di tutto il rispetto della individualità. Del paziente. E del terapeuta.
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