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Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

La potenza delle immagini: dalla paura alla cura

di Giulia Romano e Silvia Bortolotti


“Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate”

Diane Arbus


24 febbraio 2022. A poche ore dall’inizio della guerra ecco che le foto dei primi bombardamenti che distruggono le città ucraine compaiono sulle testate dei giornali e invadono le nostre case, i nostri cellulari, le nostre menti. Le immagini della lunga fila di auto incolonnate per abbandonare le città, le fotografie dei primi frammenti di missili ritrovati nei centri abitati, le riprese delle stazioni della metropolitana utilizzate come unico possibile luogo di rifugio, scuotono il mondo con una potenza inaudita. Restiamo, così, senza parole di fronte al senso di impotenza e vulnerabilità, esasperati dalla rapidità con cui giungono nuove drammatiche immagini che mostrano la distribuzione delle armi tra i civili, i mezzi militari russi in marcia, ospedali e municipi disintegrati, le stazioni prese d’assalto, i treni affollati. E dopo le città distrutte, le fotografie dei feriti, dei corpi senza vita, delle fosse comuni.

Se la nascita del fotogiornalismo di guerra si colloca già nella seconda metà del 1800 (con il primo reportage realizzato da Roger Fenton sul fronte di Crimea), oggi i nuovi mezzi di informazione ne hanno permesso una nuova e accresciuta diffusione, caratterizzati tanto da un enorme potenziale di democraticità quanto da una comunicazione fulminea che, laddove non approfondita, porta con sé il rischio di un progressivo allontanamento dalla complessità. Se le cornici, le cause, le implicazioni non trovano spazio di riflessione critica, le immagini dell’orrore dei corpi straziati, delle esecuzioni sanguinarie e dell’infanzia privata dei suoi più elementari diritti diventano al tempo stesso una mera rappresentazione manipolata e sensazionalistica nonché uno tsunami emotivo difficilmente controllabile. Emergono così sentimenti di incertezza, insicurezza, paura e sfiducia verso il presente e verso il futuro che impattano significativamente sulla quotidianità.

A pagarne le spese maggiori sono bambini e adolescenti, nativi digitali, maggiormente esposti al flusso repentino di immagini, storie e notizie che, talvolta, sollevano dubbi e domande a cui non sempre riescono a trovare risposte senza il sostegno e l’aiuto di genitori, insegnanti, terapeuti. Ignorare l’argomento non può essere considerata un’opzione: i bambini, nello specifico, necessitano di avere conversazioni aperte e sincere che li aiutino a comprendere ed elaborare tanto quanto sta accadendo in un paese solo apparentemente lontano quanto nel loro mondo interno. E i ragazzi devono poter sentire che l’adulto è in grado di accogliere pensieri ed emozioni, anche spiacevoli, e di mediare e farsi carico delle angosce attraverso la relazione e la capacità di stare con.

Le preoccupazioni relative al conflitto e le ripercussioni psicologiche, in particolare per bambini e ragazzi, sono evidenziate dall’aumento del numero di pazienti in età infantile o adolescenziale che porta nelle stanze di terapia i primi segnali di malessere.

“Le fotografie sono orme della nostra mente, specchi delle nostre vite, riflessi del nostro cuore; la fotografia come catalizzatore non verbale fa emergere sentimenti e memorie a lungo escluse dalla coscienza”: le parole di Judy Weiser, psicologa, arte-terapeuta e pioniera della fototerapia, sollecitano una riflessione: è possibile immaginare che una fotografia, o più in generale un’immagine, una vignetta, considerate quali strumenti artistici potenti dal punto di vista emotivo e comunicativo, diventino nello spazio dell’alleanza terapeutica uno strumento in grado di rievocare il simbolico personale del paziente, per aiutarlo a far emergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010)?

La potenza evocativa delle immagini era già stata ampiamente evidenziata da grandi maestri dell’arte rinascimentale come Botticelli e Leonardo da Vinci: in particolare quest’ultimo, nel suo “Trattato sulla Pittura”, aveva riflettuto sulla dimensione riflessiva attivata dalle macchie di colore.

E parlando del carattere evocatore delle macchie di inchiostro, come è possibile non fare riferimento a Hermann Rorschach, che nel 1921 ha sviluppato uno strumento diagnostico completo proprio a partire dal concetto di suggestionabilità delle immagini?

Uno degli elementi più significativi, non solo del “test delle macchie” per eccellenza, ma più in generale di una moltitudine di strumenti e tecniche basati sulle immagini, è il Chiaroscuro, ove le ombre, creando fenomeni di illusione ottica e un’interessante ambiguità visiva, assumono connotati simbolici aprendo la strada alla proiezione del mondo interno della persona sulla percezione della realtà.

La dimensione proiettiva attivata dalle immagini, così come dalla fotografia, risiede nello spazio tra una foto e il suo osservatore, eventualmente, paziente. In questo modo la fotografia, utilizzata come strumento psicologico di facilitazione, permette a chi la guarda di stare dentro alle immagini, riflettendo con esse e non solo su di esse (Maragliano, 2008).

Concettualizzando dunque la fotografia al pari dell’oggetto transizionale di Winnicott, è possibile pensare che essa possa aiutare a cogliere il senso di ciò che si vede, svolgendo la fotografia al tempo stesso due funzioni, quella di catturare la realtà nella sua forma oggettiva e quella di permettere la costruzione di significati altri attraverso la possibilità data dall’oggetto di metaforizzare. È così che la fotografia, negli ultimi decenni, è divenuta un valido e potente mezzo non solo in arteterapia (Cosden e Reynolds, 1982), ma anche nella pratica di moltissimi psicoterapeuti.

Come dice Carlo Riggi, psicoanalista e fotografo, la fotografia “può essere un modo per ricordare ma anche per dimenticare: la sua valenza terapeutica consiste anche nell'aiutare a liberarci, elaborandolo, del dato grezzo che incombe e ci ingolfa, o da angosce senza nome che ci tormentano con la loro immanente visibilità”. Possiamo allora riflettere sul fatto che nella relazione di aiuto con bambini e adolescenti, ma non solo, l’utilizzo dell’immagine risignificata, nello spazio dell’alleanza terapeutica, possa essere un valido strumento per fornire supporto, e fungere da contenitore, a fronte delle angosce senza nome che li tormentano. La risimbolizzazione di una fotografia carica di significati e la possibilità di creare, intorno ad essa, uno spazio per il pensiero, per la parola, per le paure può rappresentare, dunque, la giusta direzione per rispondere alle domande che ci pongono.

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