di Riccardo Pardini
Qualcuno dice che la pioggia aiuti le persone a stringersi di più, sotto lo stesso ombrello, sotto lo stesso giornale aperto sulla testa, sotto la gronda di uno stesso portone.
La pioggia incessante di questi giorni, la pandemia, ha certamente prodotto per molti lo stesso effetto. Più vicini, gomito a gomito, fermi ad aspettare sotto lo stesso tetto che passi la tempesta mentre dai giornali, dai social network, dalla tv arrivano aggiornamenti che fanno pensare ad un’attesa più lunga del previsto.
Ciò significa solitudine per alcuni, coabitazione per altri, convivenza forzata per altri ancora.
E allora come si fa quando lo stesso ombrello diventa troppo piccolo, un po’ sbilenco, e non sappiamo bene come tenerlo, come condividerlo? Che cosa succede quando quello stesso tetto che già ci sembrava inospitale diventa l’unico luogo in cui trascorrere il tempo sospeso della quarantena, dentro la ritmica di un amore che non funziona più e che ci espone al dolore, alla tristezza, alla rabbia, al silenzio alla disistima?
E se la vicenda critica che ha cambiato la forma della nostra famiglia l’avessimo già attraversata con fatica, portando in salvo il salvabile e l’imboscata organizzata da questo democratico virus avesse reso di nuovo tutto traballante? Pensiamo ai bambini, ai figli. Anche per loro questo è un frangente in cui le cose si fanno inaspettate e improvvise; le consuetudini e le continuità tanto care vengono meno, non riusciamo a garantirgliele come prima, come avevamo promesso. Ecco, è questo: cosa fanno i genitori separati, in quel “dopo” iniziato con il diffondersi della febbre, delle polmoniti, di ricoveri in terapia intensiva. In quel “dopo” continuamente mutevole che è il presente nostro e dei nostri bambini?
Dovremmo parlarne. Potrei averne un’idea definita soltanto attingendo a quanto mi hanno raccontato on line, al telefono o per iscritto alcuni di loro in questi giorni. Ancora una volta, per noi specialisti, la miglior teoria di riferimento è la loro esperienza, le loro soluzioni, le loro idee pratiche, incarnate. Quelle “ragioni” costruite insieme durante le nostre sedute, i nostri colloqui a due, a tre. Per carità, l’emergenza attuale è altro e la separazione a confronto potrebbe sembrare un capriccio narcisistico.
Ne siamo sicuri? Io no. Da tempo lavoro assieme a questi genitori eroici che, nonostante il dolore, la fatica e la paura si sono lasciati o lo stanno facendo. Hanno dovuto cercare le parole adatte per dire ai loro ragazzi che le cose sarebbero cambiate, che alcune cose le avrebbero perse ma che le restanti gliele avrebbero garantite. Per loro la parola “separazione” è stata ed è una realtà fattiva, non una minaccia inconsistente con cui schiaffeggiare l’altro durante una lite.
E poi è arrivata l’infezione dilagante da COVID-19 rovesciando su di noi altre inquietudini. Queste, sommate alle preoccupazioni acuminate e agli impedimenti, sono divenute per alcuni uno stallo; un’immobilità che rimanda e procrastina che prolunga e a volte acuisce la fatica. Se fossi un Robot ben programmato, potrei dichiarare con voce metallica che a noi professionisti interessano solo i bambini e il superiore interesse del minore. Ovviamente mentirei.
A noi interessano anche i grandi, le loro storie e le loro parole perché sono la grammatica della vita infantile.
E allora arrivano la semplicità e la tenerezza, la cura e l’onesta delle quali abbiamo bisogno oggi.
Questi genitori mi parlano di racconti condivisi e disegni articolati per offrire ai più piccoli la storia di quel cattivo personaggio con la Corona, re di un mondo invisibile che fa venire a chi lo incontra una “tosse forte forte e una febbre altissima per cui è meglio restare nella nostra tana mandandoci dei gran baci attraverso lo schermo del tablet ogni volta che vorremo”. In altri casi è bene organizzarsi perché “non possiamo stare troppo fuori casa” e allora i tempi con mamma e papà si allungano un po’ per evitare troppi vai e vieni.
Immagino come possano sentirsi, vivere, organizzarsi questi e altri genitori.
Tutti s’interrogano sui loro figli, su come spiegar loro quello che sta accadendo, su come gestire una situazione, già critica sul piano della trasformazione familiare che adesso, nonostante l'emergenza sia un'altra, è qualcosa da gestire in ogni caso. Non è un trauma, non mi piace questa parola. Non lo è. Sono storie di resistenza, d’impegno civile e umano, di questioni critiche che vanno risolte nonostante tutto.
Una mi ha colpito tra le molte. Quella di una ragazzina che tra i tanti talenti possiede quello della ginnastica artistica. La palestra è chiusa, tutto cancellato, rimandato a data da definirsi. Quell’impegno, che è parte della vita di un’adolescente, improvvisamente viene revocato. Senza avviso alcuno, la vita cambia e le priorità diventano altre. Allora mamma e papà le comprano on line una trave per la ginnastica, piccola, di dimensioni ridotte cioè qualcosa di molto diverso di quello cui è abituato il suo talento. La mamma mi scrive “è poca cosa dottore ma è meglio di niente”.
E invece non è poca cosa. E’ l’immagine stessa della nostra resilienza, della nostra resistenza in un momento così buio. Non è superfluo, tutt’altro. E’ il modo migliore per dire ai nostri figli e a noi stessi che, nonostante tutto, la direzione è ancora quella dell’avanti, della cura dei talenti, degli affetti, della vita anche quando essa stessa è sotto attacco. E’ il modo migliore per ricordarsi che, mentre il presente ci cambia con le sue tinte fosche, prima o dopo finirà. Allora dovremmo farci trovar pronti a portare a compimento i nostri progetti.
In ogni crisi, garantirsi qualcosa di quello che avevamo anche prima significa regalarsi continuità nel cambiamento. Significa resistere. Come quella ragazzina in equilibrio sulla trave della ginnastica. Che bravi questi miei eroi.
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