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Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

Religione, scienza e moralità: riflessioni sull’attuale situazione iraniana

di Luca Corti


Introduzione

Nelle ultime settimane, in Iran è esploso un durissimo clima di proteste e rivolte popolari, scaturite a partire dall’arresto di Mahsa Amini avvenuto nella capitale lo scorso 14 settembre. La ragazza curda di soli 22 anni è stata fermata all’uscita della metropolitana di Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab, il velo, che lasciava scoperte alcune ciocche di capelli. Trasportata già in coma al Kasra Hospital, in circostanze poco chiare, è morta il 16 settembre nel suo letto d’ospedale.

Ad arrestare la giovane donna era stata la cosiddetta «polizia morale» iraniana, Gasht-e Ershad, un organo di polizia istituito nel 2005 per sorvegliare e controllare la popolazione femminile. L’evento si è verificato in un contesto già segnato da forti tensioni tra società civile e governo, considerando che ad agosto il presidente Ebrahim Raisi aveva firmato un decreto volto ad intervenire in maniera più stringente sul codice di abbigliamento delle donne iraniane. Nel Paese esistevano già da tempo alcune regole morali di varia natura — inerenti non solo all’abbigliamento, ma anche ad aspetti più vasti come il matrimonio e la procreazione — imposte alle donne di ogni età ed estrazione sociale in una visione fortemente tradizionalista, al punto che secondo Amnesty International «le donne hanno continuato a essere discriminate nella legge e nella prassi». La popolazione femminile iraniana è quotidianamente esposta a maltrattamenti di varia natura e detenzioni arbitrarie, dovendo tra l’altro fare i conti con l’impossibilità di studiare, lavorare o anche semplicemente accedere agli spazi pubblici alla pari degli uomini. Si consideri a tal proposito che il Global Gender Gap Report del 2022 ha assegnato all’Iran la 143ª posizione su un totale di 146 paesi analizzati.

In un contesto tanto rigido, l’opposizione riverbera oggi più forte che mai. Sono infatti migliaia le donne che hanno deciso di protestare tagliandosi i capelli in pubblico e bruciando l’hjiab, che da icona culturale si è rapidamente trasformato nell’emblema di un’oppressione da combattere con tutte le forze. Sul web, i contenuti pubblicati tramite i principali social utilizzando l’hashtag #mahsaamini testimoniano un appello solenne al mondo intero, che non può certo tirarsi indietro. Soprattutto dopo che il governo iraniano ha bloccato ai manifestanti l’accesso a internet, nel tentativo di far passare il tutto in sordina.


Commento


In questo drammatico scenario appare oggi più pertinente che mai il singolare contributo di Sam Harris, saggista e neuroscienziato, autore di opere di grande spessore intellettuale quali The end of faith (2004) e The moral landscape (2012). È proprio quest’ultimo il libro in cui Harris pone ai lettori una domanda per nulla scontata, che si ricollega proprio all’attuale situazione iraniana: siamo proprio sicuri che la scienza non sia in grado di rispondere alle domande che riguardano la moralità?

In estrema sintesi l’autore, fiero avversario di ogni fondamentalismo religioso, ritiene che esista un metaforico «paesaggio morale», fatto di «montagne» più o meno alte e «valli» più o meno profonde, raggiungibili in modi diversi ma comunque identificabili in maniera oggettiva con il supporto della scienza. Proprio per questo motivo, secondo Harris sarebbe giunto il momento che le scienze prendessero definitivamente il posto della religione in merito alle questioni morali, che altrimenti continuerebbero a dipendere da opinioni soggettive e scelte arbitrarie, rallentando o addirittura ostacolando il raggiungimento di una migliore qualità di vita su scala globale.

Per quanto sia importante che ogni Paese sappia rispettare culture ed usanze diverse, oggi possiamo distinguere con relativa facilità le condizioni che rendono oggettivamente meno probabile il raggiungimento del benessere (una «vetta», nella metafora di Harris) rispetto ad altre, e questa conoscenza non deve passare in secondo piano, soprattutto quando di mezzo c’è il benessere di un’intera fascia di popolazione. Non si tratta più di teorizzazioni filosofiche o di opinioni religiose, ma piuttosto dal sapere proveniente dalla medicina, dalla psicologia e dalle neuroscienze, solo per citare alcuni tra gli ambiti di ricerca più informativi in tal senso. Se esistono dei diritti umani universali è, infatti, proprio perché la natura umana non dipende dall’appartenenza ad una particolare cultura, ma al limite con essa può dialogare o scontrarsi. Com’è possibile ignorare la componente corporea di concetti come felicità, tristezza, benessere e sofferenza, nel sapere comune etichettati spesso come qualcosa di astratto, ma che oggi possiamo studiare e spiegare con tanta precisione?

L’approccio evoluzionistico applicato alla psicologia (Bowlby, 1988; Crittenden, 2008; Liotti, 2017) mostra chiaramente come un contesto stressante o minaccioso, soprattutto se sperimentato durante l’infanzia, possa impedire ad un individuo di raggiungere un sano livello di benessere psicofisico, partecipando assieme ad altri fattori alla potenziale insorgenza di sofferenze a breve, medio e lungo termine. Sembrerebbe dunque lecito chiedersi: quanto può essere rischioso, soprattutto per un individuo di sesso femminile, nascere e crescere all’interno di un clima rigido e controllante come quello che permea l’attuale Iran, in cui ostilità, discriminazione e minacce sono all’ordine del giorno?

Dal punto di vista della professione psicologica, la risposta è piuttosto semplice e lineare. Come sinteticamente espresso in un contributo online dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL), in merito al recente progetto La psicologia per i diritti umani, è possibile affermare che «ogni limitazione o violazione dei diritti [umani] genera ferite psicologiche sia sui singoli sia sulla comunità tutta […], traumi capaci di espandersi, protrarsi di generazione in generazione, di impattare sul mutamento sociale, l’economia e la cultura». Gli esseri umani hanno bisogno di relazioni sociali positive basate sull’empatia, sul supporto reciproco e sulla cooperazione, ed è proprio verso tali relazioni che la natura sembra spingerci (per esempio Tomasello, 2009, 2016 e Rizzolatti & Sinigaglia, 2006, 2019). Tali relazioni potrebbero rappresentare tout court una base sufficientemente solida da consentire la costruzione di una società positiva (per esempio Lewin, 1948 e Sherif, 1966) che punti al benessere reale, tanto dell’individuo quanto dell’intera comunità. Rivolgiamo quindi la nostra attenzione verso coloro che soffrono e chiedono aiuto oggi, perché il loro domani dipende anche da noi.


Bibliografia


Fonti online

Ordine degli Psicologi della Lombardia: https://www.opl.it/psicologia-diritti-umani/

Fonti cartacee

Bowlby, J. (1988). A secure base. London: Routledge.

Crittenden, P. M. (2008). Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Harris, S. (2004). The end of faith: Religion, terror and the future of reason. New York City: W. W. Norton & Co.

Harris, S. (2010). The moral landscape: How science ca determine human values. New York City: Simon & Schuster Inc.

Lewin, K. (1948). Resolving social conflicts. New York City: Harper & Row.

Liotti, G., Fassone, G., & Monticelli, F. (Eds). (2017). L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali: Teoria, ricerca, clinica. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Rizzolatti, G., & Sinigaglia, C. (2006). So quel che pensi: Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Rizzolatti, G., & Sinigaglia, C. (2019). Specchi nel cervello: Come comprendiamo gli altri dall'interno. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Sherif, M. (1966). Group conflict and co-operation: Their social psychology. London: Routledge.

Tomasello, M. (2009). Why we cooperate. Cambridge: MIT Press.

Tomasello, M. (2016). A natural history of human morality. Cambridge: Harvard University Press.

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