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Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

RIFLESSIONI DI UNA TERAPEUTA IN FORMAZIONE SUL SETTING DA REMOTO

di Marika Nadette Pettuzzo


Gli anni di formazione nel percorso analitico sono quelli in cui la “forma” del ruolo terapeutico si plasma, evolve e si accomoda nel grande contenitore creato dalla scuola, dall’esperienza di tirocinio, dall’analisi personale e dai gruppi di supervisione.

Quantità di riflessioni e pensieri vengono dedicate al concetto di setting, all’importanza che gioca nell’intraprendere e condurre un percorso terapeutico.

Per noi, terapeuti in formazione, il setting costituisce, oltre l’insieme di quelle regole che organizzano la cura analitica, la bussola per guidare il nostro timido sentirci terapeuti per i nostri pazienti. Freud (1911-1913) stesso lo definiva l’insieme delle condizioni spazio-temporali che rispondono in primo luogo alla comodità dell’analista.


Ma oggi, ai tempi del coronavirus, che ne abbiamo fatto di quella comodità?


Terapie che repentinamente sono dovute passare dalla modalità “in presenza” a quella da remoto; che hanno sostituito la “comodità” della stanza di terapia all’”arrangiarsi” all’interno delle abitazioni o estensioni delle stesse; spazi di vita quotidiana, salvati da possibili intrusioni di familiari o di oggetti di sé che tradirebbero quella tanto agognata “neutralità” che ci insegnano sui banchi di scuola.


L’attesa della seduta diventa intensamente più pensata:

Dove mi posiziono? Quale parte della casa scelgo di svelare? Come mi presento?


C’è un tempo e uno spazio che necessariamente va separato dal “resto”, dall’isolamento a cui tutti siamo costretti. È un tempo e uno spazio che ha bisogno di confini chiari, definiti per il paziente ma soprattutto per il terapeuta, garante della sua privacy e generoso nel preservare il suo spazio mentale, in un tempo saturo di informazioni drammatiche e di una gestione quotidiana personale e familiare con cui tutti ci ritroviamo a fare i conti per la prima volta.

La ricerca di quei riferimenti spaziali e temporali, che contribuiscono alla “comodità” del terapeuta nella stanza di analisi, diventa essenziale per chi è in formazione, per questo, seppur in maniera rudimentale, la scelta di un luogo in cui ci sentiamo a nostro agio, la disposizione degli oggetti da mostrare nello schermo o ancora il tentativo di ri-vestire quei panni, che tanto ovvi sembravano nella terapia “in presenza”, possono rappresentare proprio le lancette di quella bussola che ci guida nell’esplorare il nostro ruolo terapeutico. Ecco che le scarpe, indossate durante le sedute nelle nostre case, assumono simbolicamente il significato di una “vestizione terapeutica” o meglio, una sorta di ancoraggio estremo a quei riferimenti esterni che supportano il costituirsi interno del setting terapeutico; elementi densi di significato, che segnano il limen tra il “non tempo” della quarantena e quello della terapia. Essa infatti prosegue in una dimensione temporale tutta sua come, una barchetta che con forza e determinazione continua il suo corso nonostante i pericoli della tempesta che attraversa.

Di solito però le acque agitate sono quelle del paziente e il terapeuta è lì, al suo fianco, per esplorare le impervietà del suo mare. Ai tempi del coronavirus, eccezionalmente, le acque del paziente hanno una corrente comune con quelle del terapeuta che insieme a lui condivide le incertezze di un tempo emergenziale e la consapevolezza di una precarietà che riguarda tutti. Questa condizione ci avvicina, attraverso il linguaggio, che diventa sempre più plurale, e il riconoscimento dei vissuti dell’altro, che spesso sono i nostri, di fronte a una realtà perturbante per entrambi, per tutti.

Dunque la paura del virus è una condizione extra-ordinaria che ci accomuna in maniera intensa ai nostri pazienti, quando solitamente ciò che condividiamo è la ordinaria condizione della precarietà umana; tutto ciò crea una vicinanza insolita.


Ci troviamo a fare terapia gli uni nelle case degli altri, separati da un monitor che accorcia le distanze nel svelare parti di sé sino a d’ora rimaste solo sognate.

Durante le sedute irrompono animali domestici; con i pre-adolescenti e gli adolescenti compaiono giochi di infanzia, parti importanti del loro passato e del loro presente che vengono mostrati attraverso la webcam; il paziente porta il “faccione” del terapeuta a esplorare il suo mondo, quello reale, e improvvisamente ciò che prima veniva scambiato sul piano dialogico, aprendo delle possibilità sul simbolico, assume sembianze concrete e reali.

Compaiono modi diversi di stare in relazione dietro allo schermo: tra i più giovani, alcuni che utilizzavano modalità relazionali più regressive evolvono e improvvisamente attingono a risorse più mature; altri continuano a “giocare” come se lo schermo non avesse modificato la possibilità di stare insieme come accadeva prima; altri ancora, appaiono maggiormente in grado di allentare le difese, scavando nel profondo più di quanto non fossero disposti a fare “in presenza”.


Necessariamente questa situazione segna un “prima” e un “dopo” in noi terapeuti, nei nostri pazienti ma anche nel nostro percorso formativo; inevitabilmente i pazienti che abbiamo in carico in questo tempo tracceranno le orme del nostro essere terapeuti perché, ancor prima di un tempo maturo per farlo, ci siamo trovati a “reinventare” quelle regole spazio-temporali proprie del setting analitico che, nella loro comodità, permettono al terapeuta di costituire e, col tempo, affidarsi a quello che diventerà il proprio setting interno.

Bleger (1966) definiva il setting un “non processo” che si distingue e rende possibile il processo del trattamento psicoanalitico. Una sorta di struttura invariante che viene percepita soltanto quando è interessata da qualche modificazione.

Certo l’autore non immaginava un cambiamento di tale entità ma poiché considerava il setting anche “il depositario delle parti simbiotiche della coppia analitica, come un’istituzione invisibile che si sottrae all’elaborazione” credo che sia doveroso prenderne in esame gli effetti, attuali e futuri per il paziente ma soprattutto per il nostro essere terapeuti.



Bibliografia


Freud S. (1911 – 1913). Tecnica della Psicoanalisi. In: OSF Vol.6. Torino: Boringhieri.


Bleger J. (1966).“Psicoanalisis del encuadre psicoanalitico”: presentato al II Congresso Psicoanalitico Argentino, pubblicato in Rev. De Psychan., 24,2,1967, pp. 241-258.

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