Femminismi, potere, società tra arte e realtà
di Marta Tironi
Gemiti di dolore su sfondo nero.
“Sta per uscire, deve solo spingere più forte. Brava, così, spinga forte!”
Gemiti. Dolore. Nero.
E, poi, vagito di vita.
“Complimenti, è una bella femminuccia!”
Vagiti di vita su sfondo bianco.
Si apre la finestrella della sala parto, occhi di donna dentro un parallelepipedo.
Vagiti. Vita. Bianco.
Si cercano i parenti. “Complimenti, è una femmina rotonda e bella”
“È femmina? Ma come? La famiglia del marito ci rovinerà la vita, loro volevano un maschio”.
Inizia così il primo, potentissimo piano sequenza del film “Il cerchio” (2000) di Jafar Panahi, Leone d’oro al Festival di Venezia che ha, tuttavia, sancito la rottura del regista con il governo di Teheran, costretto da allora all’arresto o all’esilio. Un cerchio che presto si avviluppa su se stesso e impantana lo spettatore dentro l’eterno ritorno dell’identico: terrore, mancanza di libertà, oppressione. Dopo un’ora e mezza siamo ancora dinnanzi a una finestrella. Silenzio di morte su sfondo nero. Suona un telefono, una voce noncurante risponde. Occhi di uomo dentro un parallelepipedo. Nel penitenziario si cerca una donna, che non c’è. La finestra si chiude, si chiude il cerchio.
Se c’è una cosa che il cinema, con il suo ‘schermo del sogno’, permette è una fitta partita a colpi di realtà e finzione. Panahi ci strattona per mano, da un episodio all’altro, dentro lo spaccato di vita di alcune donne iraniane sotto il regime teocratico. Donna e spettatore sono nella stessa posizione emotiva: il film è popolato di attrici non professioniste, ma la finzione diventa l’unica strada per esistere, l’arte l’unico mezzo di dissidenza, il minimalismo estetico l’unico segno del reale.
È l’arte del cinema che ci conduce dentro una narrazione che si fa potente ancor più oggi, dove le proteste iraniane, e le corrispondenti brutali repressioni, diventano notizia e terreno di orrore. E dove le protagoniste sono donne comuni, studentesse, attiviste, madri o figlie in lotta contro la polizia morale, contro il potere incarnato dal maschile, che ha bisogno di essere nominato per esistere, come sosteneva Lacan, cercando con la violenza di tollerare l’incompletezza. Invece queste interpreti femminili declinate al tempo presente, che si rispecchiano nello schermo del sogno cinematografico, sembrano immuni all’onnipotenza, immunità che debbono al loro corpo in scena che diventa il luogo su cui riscrivere la propria storia.
O il mezzo per veicolare la libertà, come Ipazia d’Alessandria, matematica e astronoma greca del IV secolo a.C., passata alla storia come la “martire della libertà di pensiero” che popolava le piazze e le biblioteche e fu assassinata da una folla di fanatici religiosi. O come Tatiana Rosenthal, medico e psicanalista russa, morta suicida nel 1920 dopo aver dedicato la sua breve vita all’attivismo politico in prima linea nella Rivoluzione d’ottobre. O, ancora, come le protagoniste de “I travestiti” (Contrasto Ed.), il corpus fotografico in cui la fotografa Lisetta Carmi, recentemente scomparsa, ha raccontato la sua esperienza con la comunità dei travestiti di Genova. È Capodanno del 1965, nell’ex ghetto ebraico del centro storico, non distante dalla Via del Campo di deandreiana memoria, la Carmi è stata invitata ad una festa. In questa casa conosce e comincia a fotografare alcune persone transgender che vivono e lavorano tra i vicoli genovesi. Inizia così un viaggio intimo e quasi iniziatico che segue tutte le fasi della vestizione, del trucco e dell’acconciatura necessari a potersi rivestire di quell’habitus identitario con cui queste persone vorrebbero essere accolte.
La rappresentazione fotografica, anche qui schermo del vero come del sogno, diventa il simbolo non saturato della loro esistenza, restituendo un nome, un volto, una danza a un corpo esibito. “La Morena è quella che ha ispirato Via del Campo a De Andrè. Era una madre. Avrebbe voluto fare la suora. Casa sua era piena di immagini religiose. Oltre ad un bellissimo ritratto di lei vestita da suora”, raccontava Loretta Carmi in un’intervista. È qui tramite il lavoro fotografico che l’arte torna a parlarci con i mezzi che gli sono propri, quelli dei simboli e della non saturazione, decostruendo significati e immettendoci in un tempo che la psicanalista Anna Ferruta definirebbe un “tempo dell’evento, dell’istante, nel quale un fenomeno accade e una trasformazione avviene”. Sguardo e identificazione si costruiscono e di disgiungono così nel contrasto dei colori e delle forme, e ci sfidano a ribaltare e a rifiutare il dominio culturale del ruolo e del senso unico alle mille sfaccettature dell’identità, che si può definire libera solo quando ci somiglia per davvero.
Come quando la Carmi racconta della “bella Elena che faceva il gruista prima di fare il travestito” e che è finita a sposare una “lesbica perché si era illusa di poter avere una vera vita familiare (…) ma lei si divertiva di più a fare il travestito che a preparare il minestrone”. Ma chi sono queste persone? Di quale messaggio si fanno carico? “Sono l’espressione enfatizzata ed esasperata di un modo ormai superato (o in via di superamento) di considerare la donna come un bene di consumo? Sono l’avanguardia paradossale e contradditoria di un modo nuovo di concepire (o di abolire) i ruoli assegnati all’uomo e alla donna? O sono tutte queste cose insieme?”, ci sollecita ancora la Carmi.
Le storie di tutte queste donne, le vicende di cui si fanno portavoce, ci interrogano con sgomento riguardo il dubbio se la complessità e la liberazione del femminile possa passare solo attraverso la tragedia. E se la priorità del soggetto e dell’agency individuale, peculiarità delle culture occidentali, non sia null’altro che uno sguardo tra gli altri. Infatti, dal dramma intimo, in cui tutto è spostato nell’interiorità, stiamo assistendo a un suo progressivo svolgersi all’esterno, dove il tessuto della società diventa terreno di scontro e, al contempo, protagonista esso stesso del presente. Se la storia non è il destino, la psicanalisi ci ricorda che è anche l’accesso al dolore che diventa una potente arma contro la ripetizione. Le storie di tutte queste donne diventano allora un cogente richiamo alla necessità di testimonianza e di assunzione di una responsabilità individuale attiva, affinché si faccia bene comune. Perché, per dirlo con Emma Goldman, anarchica russa naturalizzata americana, che ha combattuto per l’emancipazione femminile, il libero amore e l’uguaglianza, “se non posso ballare, non è la mia rivoluzione”.
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