Chi lavora con il trauma deve avere coraggio. Deve avere un autentico desiderio d’attraversare territori impantananti e sferzati dalle intemperie senza la possibilità di ripararsi, pur tentando d’essere egli stesso un riparo significativo per l’altro.
In vista della giornata di studio del 13 Novembre 2015 svoltasi presso l’Università degli studi Milano Bicocca, CSCP – Centro Studi per la Cultura Psicologica propose un’interessante contributo della dott.ssa Luisa Della Rosa ad introduzione della sua relazione. La testimonianza autentica e appassionata di una vita di lavoro come psicoanalista nella cura del trauma.
Non è la semplice voce della grande professionista che ho avuto la fortuna di poter chiamare maestra, ma il pensiero curato dell’elemento dirimente il mio percorso formativo e la strutturazione della mia identità professionale. Nell’iniziare questa nuova avventura, mi sembrava doveroso e arricchente dedicare uno spazio al suo pensiero che tanto ha influenzato sia me che i miei colleghi.
Silvia Valadè
Separazione e attaccamento per i figli con genitori ristretti in carcere
Le considerazioni che verrano qui esposte sono legate al lavoro di psicoanalista che da anni svolgo presso il Centro di Cura del Trauma di Milano (CTiF) costituito da tre comunità terapeutiche, chiamate comunità specialistiche per la cura del trauma , dove minori, dai 3 anni fino i 14/15, vengono lì allocati dall’Autorità Giudiziaria perché allontanati dalle famiglie. Il Centro si sostanzia , inoltre, di un ambulatorio clinico che si occupa principalmente di fare colloqui con i minori stessi, con i loro genitori, con la famiglia allargata ed organizzare incontri protetti laddove necessari.
Il punto di partenza che orienta il lavoro nelle comunità è che gli eventi traumatici sono dei fatti reali, che accadono nella realtà della vita. Essi si differenziano dai disturbi psicotici ,borderline ed altri di tipo psichico, poichè hanno a che fare con la realtà e come tali devono anche essere trattati in situazioni realmente e concretamente idonee ad aiutare questi minori. Per alcuni casi molto gravi l’idoneità può consistere nell’allontanamento temporaneo dalle famiglie.
La cura del trauma è una cura che avviene nella quotidianità e per questo i clinici e gli educatori che lavorano con noi, sono delle persone che attraverso gli eventi quotidiani, la ritualità del vivere, il rispetto delle regole, la sensatezza delle parole dette, l’alfabetizzazione emotiva, possano curare e riparare traumi legati ad eventi anche molto gravi.
All’apertura del Centro, una quindicina di anni fa, ci occupavamo sostanzialmente di di maltrattamenti e abusi sessuali. Successivamente, queste categorie si sono dilatate ed abbiamo anche imparato a chiamarle con un lessico nuovo, definendole traumi che i minori patiscono a causa dell’incompetenza di uno o entrambi i genitori. Il fatto di chiamarli traumi ha rappresentato una grande svolta dal punto di vista operativo e culturale, perché la teoria del trauma ha reso possibile accostare delle competenze che il solo considerare settorialmente le altre forme di inadeguatezza familiare non dava modo di considerare.
E’ stato quindi possibile utilizzare gli studi sulla memoria traumatica, e sul flashback traumatico . Aspetti di sapere , questi, che sono di grandissima importanza per quel tipo di trauma che richiedere che i minori debbano essere interrogati dall’autorità giudiziaria. In questi casi sapere come funziona la loro memoria, quanto i loro racconti possano essere considerati attendibili, risulta fondamentale. Attualmente le comunità specialistiche si occupano di diverse categorie traumatiche : la morte traumatica, bambini che hanno avuto incidenti o malattie molto gravi, bambini vittime di guerra ,bambini spettatori di stragi familiari, bamnini vittime di violenza assistita.
Possiamo ora riflettere su quel tipo di trauma definito familiare, poichè riguarda la famiglia , ovvero l’esperienza patita da alcuni minori di avere un genitore ristretto in carcere.
Sappiamo che l’essere separato da un genitore o entrambi è un evento in sé traumatico, assimilabile per alcuni aspetti dal lutto. Sono molte e diversificate le emozioni che i minori in questi casi provano, come la colpa, la vergogna, il vissuto di lealtà, il timore di non essere amati.
Insieme a questi tipi di emozioni ne provano anche altre, che in qualche modo sono il corrispettivo di queste prime, ossia il sentirsi impotente o onnipotente, ovvero il domandarsi in quale modo possono aiutare il genitore in carcere oppure pensare che il genitore è in carcere per colpa loro. Quindi il conseguente sentirsi un figlio indegno che non merita il genitore.
Per questo l’avere un genitore in carcere è un evento che non è dissimile da altri eventi traumatici gravi, per cui deve essere oggetto di cure sofisticate, attente e profonde.
Mi muovo nella convinzione che la perdita di un genitore sia necessariamente un evento traumatico e che i minori abbiano diritto a sapere cosa succede nella loro vita, quindi il tacere non è un atto protettivo, ma reca solo danno. È necessario affrontare queste situazioni cercando di capire in quale modo questi minori possano accostarsi a questa realtà terribile senza esserne devastati.
Appare di particolare importanza chiedersi se il bambino può andare a trovare il genitore in carcere; di solito si cerca di fare il possibile perché possa, ma ci dobbiamo anche domandare cosa è accaduto e qual è /era la relazione con il genitore in carcere. Abbiamo bisogno di “testimoni “che ci possano dire come sia stata la relazione di attaccamento . I testimoni di elezione in questo caso sono i membri della famiglia stessa, i quali a loro volta sono comunque stati vittime del trauma e quindi dovremo cercare di ampliare il nostro scenario di testimoni accogliendo informazioni dai Servizi Sociali o dalle agenzie educative scolastiche. Il fine non è quello di capire se il genitore fosse un genitore buono o cattivo, infatti non bisogna mai porsi con un’ottica giudicante, ma dobbiamo utilizzare la pluralità di testimoni per capire che tipo di relazione c’era tra il genitore e il minore.
Un esempio può riguardare il riuscire a capire se un papà ,al di là di quello che è successo ,era un genitore che si preoccupava e accudiva il proprio figlio, lo consolava quando aveva bisogno, se era in grado semplicemente di cambiarlo, di prenderlo in braccio. Quando abbiamo queste risposte possiamo già cominciare a capire che una relazione c ‘era. Quindi per prima cosa dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare per far sì che la relazioni continui ad esistere, seppure con quei grandi limiti che la situazione comporta, ma anche domandarci se c è qualcosa che possiamo fare perché la relazione possa essere implementata, cioè fare in modo che la crescita della relazione rispetti anche i momenti di divenire e di crescita del bambino.
Il momento dell’andare in visita è un momento che deve essere preparato, dagli operatori, dai terapeuti, dai magistrati i quali si pongono delle domande per capire quali siano i modi migliori. Oggi il nostro sapere e le nostre competenze tecniche sono più evolute di dieci anni fa, infatti abbiamo nelle carceri luoghi in cui i bambini possono stare in una misura sufficientemente adeguata, abbiamo anche tempi che tengono conto del fatto che un incontro deve avere un periodo stabilito, infine abbiamo dei modi che tengono conto che quando questi bambini approcciano un genitore carcerato possano non essere soli. Il non essere soli significa avere affianco una persona umana, che può essere l’altro genitore o un educatore. Il tema della solitudine può essere risolto attraverso l’ausilio di strumenti e occasioni che sono simbolicamente protettive e aiutano la fantasia, come i giochi, i disegni.
Il disegno è uno strumento particolarmente utile, uno strumento protettivo, non è infatti un caso che nel disegno il bambino abbassi lo sguardo e guardi il suo foglio, poiché ci sono delle situazioni in cui è difficile per un bimbo mantenere lo sguardo.
Nel passato i bambini facevano lunghe attese, venivano perquisiti, non sapevano quando avrebbero visto il genitore. Tutto questo era assolutamente irrispettoso dei bisogni e dei diritti di questi bambini, in quanto minori che compivano un’esperienza che di per sé poteva essere traumatica e noi sappiamo che questi bambini hanno delle sorta di regole che, se rispettate, permettono loro di gestire l’ansia. Sono regole molto semplici e quella fondamentale è che il bambino traumatizzato ha bisogno di controllare la realtà, per cui la vacuità e l’indefinitezza sono elementi che in caso di esperienze traumatiche sono sfavorevoli.
Inoltre, bisogna prestare molta attenzione al fatto che quando il bambino conclude la visita ci sia qualcuno che lo accolga e possa offrire un conforto, domandandogli come si sente. Spesso i bambini non rispondono a questa domanda, ma dopo un certo livello di confidenza vediamo che qualcosa iniziano a dire e quando parlano di sé, notiamo che in realtà si mettono a parlare del parente incarcerato. I bambini che hanno già un accesso alla capacità di mentalizzare, spesso descrivono il genitore come una vittima, una persona ingiustamente punita e in questo modo ci mettono dentro anche parti del sé, ossia bambini ingiustamente puniti dall’assenza del padre, manifestando emozioni e vissuti del tutto simili a quelle del lutto traumatico. Poco per volta è importante cercare di avvicinare la loro mente alla realtà degli eventi accaduti. Perché questo è l’unico modo che ci permette di avere la speranza che questi minori diventino adulti capaci di stare nell’area della legalità, all’interno di una società che distingue il bene dal male e che non diventino soggetti antisociali o psichicamente disturbati. Spesso quando si affacciano alla mente dei bambini certe domande, queste hanno anche un contenuto depressivo, ad esempio pensano che se loro non hanno un papà è perché sono dei bimbi cattivi, che non meritano di avere un padre e spesso si preoccupano anche di quello che gli altri coetanei pensano di loro. Inoltre, l’onnipotenza infantile li porterà a pensare che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare che il genitore fosse incarcerato. E’ necessario prestare particolare attenzione al tema dell’onnipotenza, che a volte può sfiorare dei piccoli screzi psicotici, arrivando fino al punto di una forte autocolpevolizzazione per non essere riusciti a evitare l’incarcerazione del genitore. Se non stiamo attenti e se questi bambini non vengono curati, i loro pensieri possono arrivare ad un completo stravolgimento della realtà. Un altro problema sorge quando il bambino crescendo e vedendo il padre raramente, inizia a manifestare la volontà di non volerlo più vedere, è necessario capire se è la manifestazione di una difesa protettiva che dobbiamo accompagnare, o se al contrario è una difesa patologica che non dobbiamo seguire. Non si tratta quindi di dover semplicemente organizzare tempi e modi degli incontri in carcere, ma di dover tenere in considerazione diversi aspetti clinici.
Infine un altro aspetto che bisogna tener presente è che molto spesso il genitore carcerato diventa oggetto di una forte idealizzazione, essendo infatti perseguitato ha delle grandi virtù e tutti quelli che non lo aiutano sono cattivi, avviene così uno spostamento non solo rispetto i criteri valoriali ma anche rispetto al principio di realtà.
Università degli Studi Milano-Bicocca , 13 novembre 2015
Luisa Della Rosa
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