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  • Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

“THERE’S A NAME FOR THE BLAH YOU’RE FEELING: IT’S CALLED LANGUISHING”

“C’È UN NOME PER CIÒ CHE STAI PROVANDO: SI CHIAMA LANGUISHING”

THE NEW YORK TIMES – BY ADAM GRANT - MAY 5, 2021


Non è possibile identificarlo nel bornout, ovvero una condizione di stress cronico e consistente – solitamente associata ad un contesto professionale – che si accompagna ad una sensazione di esaurimento, tanto fisico quanto emotivo. Non è possibile identificarlo nella depressione, giacché le numerose ricerche condotte nel corso dei mesi precedenti non sembrano aver evidenziato nella popolazione generale mancanza di speranza e di fiducia nel futuro. Tuttavia, c’è uno stato d’animo, una condizione emotiva, che più o meno consapevolmente ogni individuo sembra aver sperimentato, almeno una volta, per un periodo più o meno lungo, e che sembra essere destinato a dominare il mondo dopo la pandemia. Si tratta dellanguishing, definito dallo psicologo americano Adam Grant come un senso di stagnazione e di vuoto, in un interessante articolo apparso su The New York Times nel mese di maggio 2021.

È attraverso una metafora, suggestiva e drammatica, che il dottor Grant ne fornisce una descrizione: “percorrere la propria vita ed affrontare il trascorrere dei giorni arrancando, osservando il proprio destino attraverso un finestrino annebbiato”.


Da dove nasce tale sensazione? È possibile identificarne le cause? Secondo lo psicologo americano, lo stato di allerta che ha caratterizzato i primi, incerti mesi di pandemia, sarebbe stato lentamente ma inesorabilmente sostituito da una cronica condizione di “torpore”, capace di inficiare la motivazione individuale e la concentrazione e, dunque, identificabile quale fattore di rischio per la salute mentale. In psicologia, infatti, è possibile parlare di salute mentale come di uno spettro – continua il dottor Grant – alle cui estremità si collocano la depressione e il flourishing, ovvero, letteralmente, un funzionamento psichico fiorente, caratterizzato da produttività, resilienza, energia. Tra l’uno e l’altro polo, si colloca il languishing, uno stato di malessere in cui l’assenza di sintomi tipici di una condizione di disagio può condurre, tanto chi lo sperimenta in prima persona quanto chi lo riconosce nei proprio cari, a sottostimarne la gravità. A tal proposito, già il sociologo Corey Keys, che per primo coniò il termine languishing agli inizi degli anni duemila, aveva riscontrato che le persone con una maggior probabilità di ricevere in futuro una diagnosi di Disturbo Depressivo o Disturbo d’Ansia Generalizzata non sono coloro i quali già al momento attuale manifestano i sintomi tipici di tali disturbi, come umore depresso, perdita di interesse per tutte o quasi tutte le attività o ansia e preoccupazioni eccessive, bensì coloro i quali, nel presente, si trovano nella condizione di torpore descritta sopra.

“Ci si scopre indifferenti alla propria indifferenza”, scrive il dottor Grant. Come è facile immaginare, per riconoscere e riconoscersi in una condizione di sofferenza è innanzitutto necessario poter dare un nome alle emozioni vissute, tale da sottrarle alla nube di incertezza che solitamente le circonda e collocarle in una cornice chiara e definita, fino a comprendere che le medesime emozioni non costituiscono un “unicum”, ma un sentire comune. Aggiungere la parola languishing al vocabolario relativo al proprio mondo interno, facilita tanto “la libertà d’emozione” personale quanto la possibilità di condividere pensieri e stati d’animo con l’esterno e, non di meno, il divenire più consapevoli della realtà circostante.


Cosa è possibile fare al riguardo? Per rispondere all’interrogativo, il dottor Grant fa riferimento al concetto di flow, traducibile come flusso o esperienza ottimale, uno stato di coscienza in cui un individuo manifesta un intenso e totale coinvolgimento nello svolgimento di un’attività o di un compito, che produce profonda gratificazione e positività e incrementa la motivazione intrinseca; questo, contestualmente, porta il senso del tempo, dello spazio e del sé quasi a dissolversi: “è così che” – suggerisce lo psicologo – “coloro i quali sono riusciti ad immergersi nei loro progetti durante i primi giorni di pandemia hanno avuto minor probabilità di sviluppare la condizione di languishing e hanno più facilmente saputo ritrovare la serenità prepandemica”.

È altresì da considerare che per vivere il flow è necessaria una buona concentrazione e che le chiusure imposte per contrastare lo sviluppo della pandemia con la conseguente permanenza forzata presso la propria abitazione, talvolta affollata e rumorosa, non hanno certo reso il compito facile. A fronte di ciò, “è necessario stabilire dei limiti”, suggerisce il dottor Grant, il quale evidenzia come l’elemento determinate ai fini di una buona performance, capace di incrementare la motivazione e la soddisfazione personali, è il senso del progresso più che l’aspetto quantitativo del lavoro svolto. Così, ciò su cui suggerisce di concentrarsi sono le piccole sfide, capaci di stimolare energia, entusiasmo e motivazione talora silenti.


In conclusione, lo psicologo Adam Grant pone l’attenzione su un elemento di estrema importanza: “viviamo in un mondo che aderisce alle sfide volte a preservare la salute fisica ma che stigmatizza quelle finalizzate a difendere la salute mentale. Ciò che ci attende è una realtà post pandemica in cui la mera assenza dei sintomi più frequentemente conosciuti e riconosciuti non assicura una condizione di benessere psicofisico. Dare voce ad un senso di disagio latente e comune e illuminare un sentiero attualmente in ombra, costituiscono importanti passi nella direzione della cura del languishing”.



Traduzione e commento di Giulia Romano e Francesca Torretta

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