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  • Immagine del redattoreStudio I.F.P Milano

La gestione della diversità nei gruppi di lavoro. In equilibrio tra mediazione e relazionalità.

Quando l’integrazione delle differenze individuali diventa ricchezza per le organizzazioni professionali e il lavoro.


A cura di

Dott Riccardo Pardini

Pedagogista, Mediatore Sistemico, Formatore



A partire dalla seconda metà del XX secolo, il quadro culturale, sociale e politico, al quale facciamo continuo riferimento per orientarci nel mondo delle esperienze, ha subito un repentino e significativo cambiamento di senso. Questo mutamento ha inciso sul processo interno in base al quale costruiamo le rappresentazioni mentali che guidano il nostro agire nel mondo. Questi cambiamenti hanno spinto realtà organizzative, anche molto differenti tra loro, verso la ricerca di un equilibrio nuovo e maggiormente funzionale. Soprattutto negli ultimi anni, uomini e donne senza esclusione di ceto, età o provenienza culturale, si sono trovati nella necessità impellente di riprogettare i propri percorsi biografici, (professionali e formativi) alla luce dei nuovi imperativi sociali, di contingenze, di repentini mutamenti, e di sopraggiunte crisi multidimensionali. Tali cambiamenti non hanno interessato unicamente l’individuo in sé ma, di riflesso, ogni habitat all'interno del quale egli si trovi a gestire ruoli, relazioni, attività, lavoro, vita. Nuovi modelli di relazione; nuove forme familiari; nuovi ruoli e nuove funzioni individuali che hanno investito anche le realtà professionali nelle quali molti di noi investono tempo ed energie come persone al lavoro.


Mutamenti demografici, movimenti migratori, nuove attitudini e nuove attese, cambiamenti di ruolo, sviluppo esponenziale della tecnologia (correlata a un maggiore e più diretto accesso alle informazioni), rappresentano alcune delle nuove prospettive alle quali dobbiamo poterci adattare e sulle quali riflettere. Cultura, valori, gusti, necessità e potenziale soggettivo non possono più esser dati per scontati soprattutto da chi è chiamato a soddisfare la richiesta di servizi: le organizzazioni professionali, appunto, le aziende. Cresce la sensibilità verso la dimensione etica e sociale del lavoro stesso, resa concreta attraverso provvedimenti e nuovi processi, rinnovati protocolli o semplici attitudini dirigenziali e gestionali tradotti nella pratica con documenti e norme europee orientate a favorire una cultura delle professioni quanto più antidiscriminatoria possibile e aperta all'incremento della qualità relazionale sui luoghi di lavoro. Parallelamente cresce l’interesse di chi investe denaro in progetti organizzativi rivolti alla valorizzazione della parte intangibile e non finanziaria delle imprese stesse.


La gestione del potenziale umano interno a un’organizzazione deve essere tenuta in gran conto dalle organizzazioni stesse anche in termini di nuovi apprendimenti. Un simile approccio deve tendere alla produzione di benessere e favorire lo sviluppo di un’alta qualità delle relazioni e della formazione interna alle aziende stesse. Come ci ricorda lucidamente Reg Revans, quest’orientamento diventa un po’alla volta un imperativo tanto che: in tutte le epoche caratterizzate da rapidi cambiamenti, le organizzazioni che non sono in grado di adattarsi incontrano subito grandi difficoltà. Tale adattamento si compirebbe soltanto attraverso processi di apprendimento e integrazione della diversità. Un’organizzazione che continua a esprimere solo idee del passato non apprende [Revans; 1983]. Secondo quest’ottica, aziende, gruppi di lavoro, organizzazioni ed équipes non possono esimersi dal confronto con il nuovo concetto umano di diversità o ancora meglio con una crescente e potenzialmente ricchissima complessità. Neppure possono sottrarsi dal prendere in esame tale complessità come un elemento che se assunto, elaborato e compreso, si rivela portatore di grande innovazione, di creatività, di motivazione, capace di costruire un miglior funzionamento generale. Ecco dunque che un numero crescente di studi in tal senso prende forma e trova, di conseguenza, pubblicazione e successiva divulgazione.


Ne sono un esempio:


- Diversity management. A new organizational paradigm. [Gilbert, Stead, Ivancevich;1999]

- Critical turns in the evolution of diversity management. [Lorbiecki, Jack; 2000]


Nei lavori citati il Diversity Management prende forma diventando una possibile soluzione, adottata dalle aziende che decidono di adeguare la propria cultura interna ai cambiamenti in atto. Il focus iniziale è il riconoscimento del capitale intangibile rappresentato dalla caratteristica più tipica dei cittadini del nuovo millennio: la diversità, appunto, le differenze o ancor meglio la complessità individuale. Per questo motivo, fin dagli anni Novanta un numero sempre crescente di dirigenti, in prevalenza americani e nordeuropei, ha deciso di adottare la filosofia del Diversity Management per “riconoscere” i propri dipendenti e legittimarli nella loro unicità valorizzando il contributo prezioso che il singolo può apportare al raggiungimento degli obiettivi collettivi e favorendo l’incremento del capitale umano interno e il benessere sui luoghi di lavoro. Quanto detto ha molto a che fare con le persone, con la concezione che hanno di sé, con lo sviluppo della propria identità personale/professionale e la dimensione emotivo/affettiva. Da questa non possiamo prescindere se davvero vogliamo riflettere sull'esperienza umana, indipendentemente dall'ambiente al quale facciamo riferimento. Il lavoro si realizza attraverso le varie “pratiche” d’individui portatori di una storia personale ancor prima che professionale. Tale storia diventa potenzialmente un arricchimento dell’intera organizzazione purché assunta e legittimata nel suo esser “unica, possibile, rilevante” e portatrice di un potenziale specifico.


L’incontro con la diversità dell’Altro spesso genera eventi critici, non di rado un conflitto.

Spesso l’esplicitazione della diversità, in seno alle équipe e ai gruppi di lavoro, conduce a processi relazionali spesso contraddistinti da alti livelli di distress e di belligeranza. Gli esiti non di rado si rivelano deleteri ponendo le condizioni per la genesi di uno “stallo”; una condizione di rigido immobilismo, che congela lo sviluppo del lavoro impedendo la crescita organizzativa stessa. In realtà il conflitto in sé sarebbe portatore d’eventualità creative potenzialmente molto arricchenti. Quando attraversata in piena coscienza e consapevolezza, una crisi è in grado di illuminare nuovi percorsi, risorse e strategie. Questo anche attraverso l’eventuale utilizzo di uno strumento d’intervento capace di sostenere il gruppo durante la fase più critica del conflitto: la mediazione cooperativa nei contesti professionali.

Il lavoro del mediatore sostiene la transizione critica favorendo i nuovi apprendimenti alla ricerca di rinnovati assetti organizzativi che incrementino la capacità collettiva di fornire risposte adeguate, integrare le differenze individuali e seguire la strada della crescita. Una crescita necessaria affinché le organizzazioni restino al passo con i tempi moderni, modulando il proprio funzionamento in relazione sia alle nuove richieste sia al quadro socio-culturale territoriale.

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